Il mio viaggio tra le lingue

Written in Italian by Prisca Agustoni

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Scrivo dalla mia finestra che dà su una riva di lago tra il 26 e il 27 febbraio. 

Mentre rileggo frammenti dell’Ulisse di Joyce, per pensare a questo contributo, è impossibile filtrare le notizie spaventose che arrivano dalla vicina Ucraina. A ritmi intermittenti, le prime immagini della guerra e della fuga della popolazione. Ecco che ora le nuove immagini si sovrappongono a un archivio collettivo di immagini di persone che scappano, spesso a piedi, altre volte su dei treni improvvisati, in direzione a frontiere provvisorie, precarie. Volti tesi, preoccupati, soprattutto di madri, molti volti femminili, che cercano di distrarre come possono i più piccoli, a volte raccontando loro delle storie fantastiche. È quel che resta, immagino, dell’arsenale della gioia, per andare avanti e creare un orizzonte. Alcuni portano con sé il cane, il gatto, una bambola, un libro…

Ora in riva al lago non ci sono più i bambini che giocano. Fa freddo e cala la sera. Torno alla lettura di Joyce. M’imbatto sulla scena di Bloom che dialoga con il cittadino, al bar. Una scena paradigmatica di quello che mi bolle dentro. Il cittadino fermo sulle sue convinzioni che dicono di radici e purismo, e Bloom che invece “erra”, vaga tra idee e punti di vista mobili, cercando di spostare le frontiere ideologiche dell’interlocutore, naufragando nelle proprie incertezze e facendo dell’umanità in senso ampio una condizione esistenziale che ci fa cittadini del mondo.

Penso alla rilettura in chiave joyciana dell’odissea do Omero, di quel partire per esplorare altre terre per poi tornare a sé, al “centro” della civilizzazione – che appunto in Joyce diventa sfida moderna e angosciante per la ricerca degli altri nascosti dentro di sé, del molteplice, del plurale, di ciò che è anche sviante. Je est un autre, come ci insegnò Rimbaud. Una forma di deriva nell’arcipelago dell’esistenza. E penso a cosa mi avvicina a questo modo di esistere alla Ulisse-Rimbaud contemporaneo: rifletto sui vari modi per partire, sul vivere con la consapevolezza di una partenza imminente, che è poi la nostra condizione di vita da quando ne abbiamo la coscienza. E in fondo mi chiedo se in questo vagare di Bloom tra le strade della sua Dublino o gli angoli della sua psiche non ritrovo pure la mia deriva, il movimento del nostro essere erranti. Del nostro costante gesto di piantare semi nella terra per un fiorire futuro – la promessa di un ritorno. 

Per rispondere al tema proposto quest’anno dall’evento, penso quindi alla mia odissea personale e letteraria, a come ho coniugato queste infinite partenze con lo scavo interiore , e come la parola (in particolare, la parola poetica) sia per me un setaccio che separa l’essenziale dal superfluo, cosa dire, come dirlo e perché sia necessario dirlo. 

Sono una poeta svizzera di lingua italiana, la cui lingua madre è un dialetto che non so scrivere. Scrivo (e mi autotraduco) anche in francese e in portoghese. Sono nata e cresciuta sulle rive di lago di un paese pacifico e democratico, ma ho fatto del migrare in altre lingue e culture il mio percorso sin dagli anni universitari. Oggi vivo tra la Svizzera e il Brasile – una realtà un po’ meno pacifica e attualmente meno democratica. Assumere la lingua dell’altro ed essere abitata dagli altri è stato il mio modo di essere singolare e molteplice allo stesso tempo, un je est un autre come un mantra mai confessato. Ho fatto del mio “naufragare” una specie di arcipelago pieno di porti o di isole con delle case linguistiche-poetiche dove stare e sostare. Assieme agli altri. E questo movimento pendolare ha fatto di me un essere metamorfico, o così mi piace considerarmi: una poeta in ascolto delle molteplici singolarità che mi abitano, che si sono aperte un senso (inteso come direzione e come significato) nel mio sguardo su un mondo che è contradditorio, plurale, mai soggetto a facili semplificazioni o letture unilaterali. 

Considero questo percorso come uno scavo all’interno delle stratificazioni che compongono la ricerca di un linguaggio poetico – declinato in più lingue, ma comunque sempre in sintonia con un unico linguaggio, quello poetico, mio strumento di aderenza al mondo.  

Scrivere in più lingue, attraversare frontiere geografiche e linguistiche. Subito mi tornano in mente tre grandi voci femminili che mi hanno guidata in questa viaggio di iniziazione multilingue: l’italiana Amelia Rosselli e la sua scrittura apolide; la russa Marina Cvétaieva, con la splendida lettera del 1932 scritta in francese, “mon frère féminin: lettre à l’Amazone” dove l’autrice parla dell’amore proibito tra due donne; e la svizzero-ungherese Agota Kristof, in particolare nel suo intenso e breve racconto autobiografico “l’analfabeta”: tre donne migranti, appunto, che hanno rovesciato l’esperienza biografica della migrazione all’interno del processo creativo,  in una scrittura che si è sdoppiata, moltiplicata  in più lingue e direzioni. 

Perché se è certo che mancano, nella tradizione letteraria occidentale, personaggi femminili che incarnano il modello dell’eroina “andante”, che scopre il mondo e sé stessa nella misura in cui si perde nella selva oscura della vita o della città (che sia la Dublino di Bloom o la Parigi di Baudelaire),– eccezion fatta per le amazzoni-, è pur vero che nella vita reale, il processo migratorio degli ultimi decenni – e la sua narrazione –  hanno chiaramente un volto femminile. 

La lettura di Agota Kristof, in particolare, mi ha fatto riflettere sul mio processo di scrittura plurilingue. Così come è il caso della Kristof, sono più spesso le donne quelle che costituiscono la spina dorsale delle diaspore contemporanee, o che portano con sé le lingue d’origine per tramandarle ai figli, alimentando il fuoco della cultura. E che poi passano a scrivere nella lingua di arrivo. Non sono quindi delle Penelopi, ma piuttosto delle Molly che dicono di sì agli eventi della vita, un po’ traditrici come la stessa Molly, tradiscono la tradizione e la lingua materna. Chi per necessità, chi per volontà, chi perché si trova a suo agio in un territorio senza confini tracciati da convenzioni internazionali che possono essere riviste a seconda degli interessi in gioco. Ho anche recentemente tradotto alcune opere della Kristof in portoghese, e da questa esperienza sono nate alcune poesie, una delle quali vi propongo in italiano: 

la lingua nemica
entra dall’udito e scorre
fino all’aorta

dove aspetta e ringhia

cane che scopre
l’estraneo in agguato
dietro la porta

e latra e morde l’osso
della lingua morta

così l’operaia
scrive sul suo quaderno
una cronaca sull’inferno

mentre aspetta
il ritorno della lingua
recisa,
la certezza della scrittura
come unica dimora

bozza eterna
in una lingua storta 

Anch’io, dunque, a modo mio, cerco di spostare gli orizzonti dei miei lettori, benché minimamente, e lo faccio con “una lingua storta”, perché no, parlando di realtà che forse non sono così ovvie a quelle latitudini, incrociando le prospettive, un po’ come faceva, provocativo, Henry Bloom con il cittadino. 

È stata intenzionale, per esempio, la scelta della lingua portoghese per il libro di poesie pubblicato a San Paolo nel 2020, O MUNDO MUTILADO, il cui tema centrale è la migrazione e l’emergenza umanitaria del Mediterraneo. Un tema poco “visto” in Brasile, così preso dai propri problemi secolari. Il risultato forse è stato quello di introdurre con la forza obliqua della poesia uno sguardo più attento e sensibile nei confronti della realtà di milioni di persone che partono dal proprio territorio alla ricerca di altre terre. Milioni di odissee umane. 

Oltre al mio viaggio biografico (direi senza dubbio il meno interessante), ce n’è un altro, forse più denso, che è appunto quello che realizzo nella lingua, ossia, il tentativo di entrare nell’universo dell’altro con i suoi strumenti, per spostarne lo sguardo, rinnovare gli snodi e le perplessità. E per trovare in parte anche me stessa, nella frammentarietà di questo esserci.

La mia piccola grande odissea non finisce quando arrivo, quando poso la valigia piena di libri in una parte della stanza; al contrario, è forse in quel momento dove comincio a partire per davvero. 

*

È notte inoltrata, non ho il coraggio di cercare le notizie dell’ultima ora. Resto incollata alla sedia, al vetro, al lago in lontananza che mi porta un paesaggio sempre fedele a sé stesso. È tutto così strano, a volte, quando si hanno tante lingue a disposizione, e non si trovano proprio le parole per dirlo, lo sgomento di un tempo che insiste nel mostrarci le fauci. 

Prima guardavo dalla finestra, e pensavo alle immagini di questi giorni. Immagini di donne in fuga. Ho iniziato da lì, da quelle partenze tragiche, per arrivare alla fine del mio breve testo. Scrivere queste parole è  stato lanciare una fune che mi ha permesso di aggrapparmi a qualcosa, oggi, e attraversare queste tremende ore in sospeso. 

Ecco, forse è anche questo, per me, la scrittura.

Riva San Vitale
28 febbraio 2022

Published July 4, 2022
© Prisca Agustoni 2022

Minha viagem entre as línguas

Written in Italian by Prisca Agustoni


Translated into Portuguese by Prisca Agustoni

Escrevo desde a janela que olha para a margem do lago, entre 26 e 27 de fevereiro.

Enquanto releio fragmentos do Ulisses de Joyce para pensar nesse texto, é impossível filtrar as notícias assustadoras que chegam da vizinha Ucrânia. A ritmos intermitentes, as primeiras imagens da guerra e da fuga da população. Eis que agora, as novas imagens se sobrepõem a um arquivo coletivo de imagens dos que fogem muitas vezes a pé, outras vezes em trens improvisados, rumo a fronteiras provisórias, precárias. Rostos tensos, preocupados, principalmente de mães, muitos rostos femininos, que procuram distrair do jeito que podem os pequenos, às vezes contando histórias fantásticas. Alguns carregam o cachorro, o gato, uma  boneca, um livro…

Agora na beira do lago já não há crianças brincando. Faz frio e desce a noite. Volto à leitura de Joyce. Me deparo com a cena de Bloom que dialoga com um cidadão, no bar. Uma cena paradigmática daquilo que me queima por dentro. O cidadão está fechado em suas convicções que falm de raízes e purismos, enquanto Bloom erra, vagueia entre ideias e pontos de vistas móveis, tentando deslocar as fronteiras ideológicas do seu interlocutor, naufragando em suas incertezas e fazendo da humanidade em sentido amplo uma condição existencial que nos torna cidadãos do mundo. 

Penso na releitura em chave joyceana da odisseia de Homero, daquele movimento de partida para explorar outras terras para depois voltar a si, no centro da civilização – que justamente em Joyce se faz desafio moderno e angustiante para a procura dos outros escondidos dentro de nós, do múltiplo, do plural, daquilo que inclusive é desviante. Je est un autre, como nos ensinou Rimbaud. Uma espécie de deriva no arquipélago da existência. Penso naquilo que me aproxima dessa forma de existir à maneira de um  Ulisses-Rimbaud contemporâneo: reflito sobre os vários modos de partir, sobre o viver com a consciência de uma despedida iminente, que na verdade é nossa condição  de vida a partir de quando temos consciência disso.  E no fundo me pergunto se nesse vagar de Bloom entre as ruas de Dublin ou entre as esquinas de sua psique não encontro inclusive minha própria deriva, o movimento do nosso ser errantes. De nosso constante gesto de semear na terra para uma floração futura – a promessa de um retorno. 

Para responder à proposta do tema do evento desse ano, penso então na minha odisseia pessoal e literária, em como conjuguei essas infinitas partidas com a escavação interior, e como a palavra (especialmente a palavra poética) é para mim um filtro que separa o essencial do supérfluo, o que dizer, como dizê-lo e porque seja necessário dizê-lo. 

Sou uma poeta suíça de língua italiana, cuja língua materna é um dialeto que não sei escrever. Escrevo e me autotraduzo também em francês e em português. Nasci e cresci nas margens de um lago de um país pacífico e democrático, mas fiz do migrar em outras línguas e culturas meu percurso, isso desde os anos universitários. Hoje vivo entre a Suíça e o Brasil – uma realidade um pouco menos pacífica e atualmente menos democrática. Assumir a língua do outro e ser habitada pelos outros foi meu modo de ser singular e plural ao mesmo tempo, um je est un autre como um mantra nunca revelado. Fiz do meu “naufragar” uma espécie de arquipélago cheio de portos e de ilhas onde encontro casas linguísticas-poéticas para estar e pausar. Junto com os outros. Esse movimento pendular me fez um ser metamórfico, ou assim gosto de me considerar: uma poeta à escuta das muitas singularidades que me habitam, que abriram um sentido (pensado aqui como rumo mas também como significado) na minha maneira de olhar para um mundo que é contraditório, plural, nunca sujeito a fáceis simplificações ou leituras unilaterais.

Considero esse roteiro como uma escavação no interior das estratificações que compõem a procura de uma linguagem poética – declinada em diferentes idiomas, mas mesmo assim, sempre em sintonia com uma única linguagem, a poética, meu instrumento de aderência ao mundo. 

Escrever em vários idiomas, atravessar fronteiras geográficas e linguísticas. Logo lembro de três grandes vozes femininas que me guiaram nesse périplo de iniciação plurilíngue: a italiana Amelia Rosselli e sua poesia apátrida; a russa Marina Cvetaieva, com sua maravilhosa carta de 1932, escrita em francês, “meu irmão feminino: carta à Amazona” na qual a autora fala do amor proibido entre duas mulheres; e a suíço-húngara Agota Kristof, em especial em seu breve e intenso relato autobiográfico “A analfabeta”: três mulheres migrantes, justamente, que transformaram a experiência biográfica da migração em fértil processo criativo, numa escrita que se desdobrou, se multiplicou em mais línguas e mais direções.

Porque se é um fato que faltam, na tradição literária ocidental, personagens femininas que encarnam o modelo da heroína caminhante, que descobre o mundo e sua interioridade na medida em que se perde na selva escura da vida ou da cidade (seja esta a Dublin de Bloom ou a Paris de Baudelaire) – à exceção das amazonas -, é também verdade que na vida real, o processo migratório das últimas décadas – e sua narração – tem claramente rosto e voz femininos. 

A leitura dos livros de Agota Kristof, em especial, me fez refletir sobre meu processo de escrita plurilíngue. Assim como é o caso de Kristof, são muitas vezes as mulheres as que constituem a espinha dorsal das diásporas contemporâneas, as que carregam as línguas de origem para partilhá-las com os filhos, alimentando o fogo da cultura. E que, às vezes, passam a escrever na língua de chegada. Não são pois como as Penélopes clássicas, e sim como Mollys que dizem “sim” para os acontecimentos da vida, um pouco traidoras, como a própria Molly, pois traem a tradição e a língua maternas. Quem por necessidade, quem por vontade, quem porque está à vontade num território sem fronteiras traçadas pelas convenções internacionais ( que possam ser revistas de acordo com os interesses em jogo) se reconhece outro alcança, simultaneamente, a compreensão dos abismos e saltos mais particulares. Recentemente traduzi em português algumas obras de Kristof, e dessa experiência nasceram alguns poemas, um dos quais proponho aqui para  vocês (na versão portuguesa que já foi publicada): 

a língua inimiga entra
pelos ouvidos e escorre
até à aorta

ali espera e rosna

um cão que sabe
o estranho à espreita
atrás da porta

nessa língua feita cão
que ladra
e rói o osso
da língua morta

a operária húngara
escreve seu caderno
como uma Penélope,
mais uma,
ela própria no exílio
tecendo
sua mortalha:

Agota Kristof
espera
a volta da língua
sacrificada,
a certeza da escrita
como única casa 

rascunho eterno
numa língua torta

Também procuro, à minha maneira, deslocar os horizontes dos meus leitores, ainda que minimamente, e o faço utilizando uma “língua torta”, por que não?, falando de uma realidade que talvez não é tão clara naquelas latitudes, cruzando as perspectivas, um pouco como fazia, provocador, Leopold Bloom com o cidadão.

Foi intencional, por exemplo, a escolha da língua portuguesa para o livro de poemas publicado em São Paulo em 2020, O mundo mutilado, cujo tema central é a migração e a emergência humanitária do Mediterrâneo. Um tema pouco “visto” no Brasil, tão absorvido por seus problemas seculares. O resultado quiçás foi aquele de introduzir com a força oblíqua da poesia um olhar mais atento e sensível para a realidade de milhões de pessoas que partem do próprio território à procura de outras terras. Milhões de odisseias humanas.

Para além da minha viagem biográfica (sem dúvida menos interessante), existe outra, mais densa, que é justamente aquela que realizo na língua, isto é, a tentativa de entrar no universo do outro com seus instrumentos, para deslocar seu olhar, renovar as aporias e as perplexidades. E para encontrar parcialmente a mim mesma, na fragmentação dessa presença. 

Minha pequena grande odisseia não termina ao  chegar, quando largo a mala cheia de livros num canto da sala; ao contrário, é talvez nesse momento que começo a viajar pra valer. 

*

Já é noite, não tenho coragem para procurar as notícias de última hora. Fico grudada na cadeira, no vidro, no lago ao longe que me leva até uma paisagem sempre fiel a si mesma. É tudo muito estranho, às vezes, quando temos tantas línguas prontas para falar e mesmo assim, não se encontram as palavras para nomear o espanto de um tempo que insiste em nos mostrar suas garras.

Antes eu olhava pela janela pensando nas imagens desses dias. Imagens de mulheres em fuga. Comecei por ali, por essas fugas trágicas, até chegar ao final desse meu breve texto. Escrever essas palavras foi como lançar uma corda que me permitiu me agarrar a algo, hoje, e atravessar essas terríveis horas suspensas.

Talvez escrever seja isso também para mim – esse atravessamento.

Fevereiro-março de 2022, Riva San Vitale

Published July 4, 2022
© Prisca Agustoni 2022
© Specimen 2022

Meine Reise zwischen den Sprachen

Written in Italian by Prisca Agustoni


Translated into German by Martina Kempter

Vom 26. auf den 27. Februar setze ich mich zum Schreiben an mein Fenster, das zum Seeufer hinausgeht.

Während ich Stellen aus Joyce’ Ulysses nachlese, um mir Gedanken über diesen Beitrag zu machen, kann ich unmöglich die erschreckenden Nachrichten ausblenden, die aus der nahen Ukraine zu mir dringen. Die ersten Bilder vom Krieg und von der Flucht der Bevölkerung im Wechsel. Und gleich überlagern sich die neuen Bilder mit einem kollektiven  Bildarchiv von Menschen auf der Flucht, die oftmals zu Fuss, andere Male in behelfsmässigen Zügen unterwegs sind zu provisorischen, prekären Grenzen. Angespannte, sorgenvolle Gesichter vor allem von Müttern, viele Gesichter von Frauen, die sich Mühe geben, ihre kleinen Kinder abzulenken, indem sie ihnen vielleicht auch fantastische Geschichten erzählen. Das ist, denke ich, was vom Vorrat an Freude übrigbleibt, wenn man vorwärts gehen und einen Horizont aufspannen will. Einige haben ihren Hund dabei, eine Katze, eine Puppe, ein Buch …

Am Seeufer sind um diese Stunde keine spielenden Kinder mehr. Es ist kalt und wird bald dunkel. Ich gehe wieder an die Joyce-Lektüre und stosse auf die Szene mit Blum, der sich im Pub mit dem Bürger unterhält. Eine Szene, die beispielhaft dafür ist, was mich umtreibt. Der Bürger, der an seinen Überzeugungen festhält, in denen von Herkunft die Rede ist und von Reinheit, während Bloom hingegen „abschweift“ , sich zwischen beweglichen Ideen und Gesichtspunkten hin und herbewegt und versucht, die ideologischen Grenzen seines Gegenübers zu verschieben, dabei aber Schiffbruch an den eigenen Unsicherheiten erleidet und die Menschlichkeit im weiteren Sinne zu einer Daseinsbedingung für uns als Weltbürger macht.

Ich denke an Joyce’ Neulektüre von Homers Odyssee, in der es um den Aufbruch zur Erforschung neuer Ufer geht und um die Rückkehr zu sich selbst, zum „Herz“ der Zivilisation – was bei Joyce zu einer modernen und beängstigenden Herausforderung der Suche nach dem oder den Anderen gerät, die im Selbst verborgen sind, nach dem Vielfältigen, Pluralen, auch Abweichenden. Je est un autre, wie uns Rimbaud lehrte. Eine Form, sich treiben zu lassen im Archipel der Existenz. Und ich überlege, was mich persönlich in die Nähe dieser Art des Existierens als zeitgenössischer Ulysses-Rimbaud rückt: Ich denke an verschiedene Arten des Aufbrechens, an das Leben im Wissen um einen unmittelbar bevorstehenden Aufbruch, was die Situation unseres Lebens ja bestimmt, seit wir das Bewusstsein davon erlangt haben. Im Grunde frage ich mich, ob ich in Blooms Umherschweifen durch die Strassen seiner Heimatstadt Dublin oder in den Winkeln seiner Psyche nicht auch meine eigene Getriebenheit wiederfinde, die Bewegung unseres schweifenden Seins. Dass wir ständig eine Saat ins Erdreich bringen müssen, damit künftig etwas blüht – die Verheissung einer Rückkehr.

Der diesjährigen Fragestellung der Eventi letterari Monte Verità entsprechend denke ich also an meine persönliche und literarische Odyssee, daran, wie ich diese unzähligen Aufbrüche mit Grabungen im Innern verbunden habe, und wie für mich das Wort (besonders das dichterische Wort) ein Sieb ist, um das Wesentliche vom Überflüssigen zu trennen: was zu sagen ist und wie und warum etwas unbedingt gesagt werden muss.

Ich bin eine italienischsprachige Schweizer Dichterin und habe einen Dialekt zur Muttersprache, den ich nicht schreiben kann. Ich schreibe auf Französisch und Portugiesisch (und übersetze mich selbst in diese Sprachen). Geboren und aufgewachsen bin ich an einem See in einem friedlichen und demokratischen Land, aber seit meinen Studienjahren habe ich das Migrieren in andere Sprachen und Kulturen zu meinem eigenen Weg gemacht. Heute lebe ich in der Schweiz und in Brasilien – in einer etwas weniger friedlichen und aktuell weniger demokratischen Realität. Die Sprache anderer anzunehmen und von anderen bewohnt zu werden, das war mein Weg, einzigartig und zugleich vielfältig zu sein, ein je est un autre als uneingestandenes Mantra. Aus meinem eigenen „Schiffbruch“ habe ich eine Art Archipel voller Häfen und Inseln mit vielen sprachlichen-dichterischen Häusern gemacht, wo man sein und verweilen kann. Zusammen mit den anderen. Und diese Pendelbewegung hat ein metamorphisches Wesen aus mir gemacht, oder als solches betrachte ich mich gern: eine Dichterin, die auf die vielfältigen Eigenarten hört, die in mir wohnen und mir einen Sinn (verstanden als Richtungs- und als Bedeutungssinn) eröffnet haben, wie ich auf eine widersprüchliche und vielfältige Welt blicke, ohne zu schnellen Vereinfachungen oder zu einseitigen Lesarten zu neigen.

Ich betrachte diesen Weg als eine Grabung im Inneren der Schichten, aus denen sich die Suche nach einer dichterischen Sprache zusammensetzt – dekliniert in mehreren Spachen, doch stets im Einklang mit einer einzigen Sprache, jener der Dichtung, meinem Instrument der Zugehörigkeit zur Welt. 

In mehreren Sprachen schreiben, geographische und sprachliche Grenzen überschreiten. Gleich kommen mir drei grosse weibliche Stimmen in den Sinn, die mich bei dieser mehrsprachigen Initiationsreise geleitet haben: die Italienerin Amelia Rosselli und ihr staatenloses Schreiben; die Russin Marina Zwetajewa mit ihrem brillanten, auf Französisch geschriebenen Brief aus dem Jahr 1932, „mon frère féminin: lettre à l’Amazone“, in dem die Autorin über die verbotene Liebe zwischen zwei Frauen spricht; und die schweizerisch-ungarische Schriftstellerin Agota Kristof, besonders mit ihrer dichten, kurzen autobiographischen Erzählung „Die Analphabetin“: drei Migrantinnen, die ihre biographische Erfahrung der Migration ins Innere des Schaffensprozesses gegossen haben, in ein Schreiben, das sich in mehrere Sprachen und Richtungen verdoppelt, vervielfältigt hat.

In der literarischen Tradition des Westens mangelt es zwar an Frauenfiguren vom Typus der „aufbrechenden“ Heldin, die die Welt und sich selbst in eben dem Masse entdeckt, wie sie sich im dunklen Wald des Lebens oder der Stadt (sei diese nun Blooms Dublin oder Baudelaires Paris) verliert – die Amazonen einmal ausgenommen –, aber im wirklichen Leben hat der Migrationsprozess der vergangenen Jahrzehnte – und die Erzählung davon – eindeutig ein weibliches Gesicht.

Besonders die Lektüre von Agota Kristof hat mich über meinen mehrsprachigen Schreibprozess nachdenken lassen. Wie auch bei Kristof sind es meistens die Frauen, die das Rückgrat der zeitgenössischen Diaspora bilden oder ihre Herkunftssprachen mitbringen, um sie an die Kinder weiterzugeben und so das Feuer der Kultur zu schüren. Und die dann in der Zielsprache weiterschreiben. Sie gleichen daher weniger Penelope als viel eher Molly, denn wie diese sind sie offen für wechselnde Lebensumstände und auch ein wenig untreu, wenn sie ihre eigene Tradition und Muttersprache hintergehen. Die einen aus Notwendigkeit, die anderen aus freien Stücken, wieder andere, weil sie sich in einem Land wohlfühlen, dessen Grenzen nicht durch internationale Konventionen festgelegt sind, die sich je nach Interessenlage revidieren lassen. Auch habe ich unlängst einige  Werke Kristofs ins Portugiesische übersetzt, und aus dieser Erfahrung sind einige Gedichte entstanden, von denen ich Ihnen eines  vorstellen möchte:

die feindliche Sprache
kommt durchs Gehör und rinnt
bis zur Aorta

wo sie wartet und knurrt

ein Hund, der den Fremden wittert
der hinter der Tür
lauert

er jault und beisst am Knochen
der toten Sprache herum

die Arbeiterin schreibt so
in ihr Heft
eine Chronik der Hölle

während sie auf die Wiederkehr
der abgeschnittenen Sprache wartet,
die Sicherheit des Schreibens
als einzige Wohnstatt

ein ewiger Entwurf
in einer schiefen Sprache

Auf meine Art versuche also auch ich, die Horizonte meiner Leser zu verschieben, und sei’s nur ein wenig, und ich tue es, warum nicht, mit einer „schiefen Sprache“, indem ich von Realitäten spreche, die in jenen Breiten vielleicht nicht so offensichtlich sind, indem ich die Perspektiven miteinander verschränke, ein bisschen so, wie das provokant Leopold Bloom mit dem Bürger tat.

So geschah beispielsweise die Wahl des Portugiesischen für den Gedichtband O MUNDO MUTILADO, der 2020 in San Paulo erschien, in voller Absicht. Sein zentrales Thema ist die Migration und die humanitäre Notlage im Mittelmeer, ein Thema, das in dem stark von eigenen Problemen beanspruchten Brasilien wenig „gesehen“ wird. Das Ergebnis ist vielleicht gewesen, durch die umwegige Kraft der Poesie einen aufmerksameren und feinfühligeren Blick auf die Lebenswirklichkeit von Millionen von Menschen zu richten, die ihr eigenes Land auf der Suche nach anderen Ländern verlassen. Millionen von menschlichen Odysseen.

Ausser meiner biografischen Reise (der zweifellos weniger interessanten) gibt es noch eine weitere, vielleicht intensivere, die ich in eben meiner Sprache vollführe, vielmehr den Versuch, in die Welt des anderen mit dessen eigenen Werkzeugen einzudringen, um den Blick zu verschieben und neue Gelenkstellen und Betroffenheiten zu erkennen. Und um im Fragmenthaften dieses Daseins zum Teil auch mich selbst zu finden.

Meine kleine grosse Odyssee hört nicht auf, wenn ich ankomme, wenn ich den Koffer voll Büchern irgendwo im Zimmer abstelle; im Gegenteil beginnt für mich vielleicht genau in diesem Moment der wahre Aufbruch.

*

Es ist spät in der Nacht, ich habe nicht den Mut, nach den aktuellsten Nachrichten zu suchen. Ich klebe am Stuhl fest, am Fenster,  am See in der Ferne, der mir eine sich immer treu bleibende Landschaft spiegelt. Es ist manchmal so befremdlich, wenn man so viele Sprachen zur Verfügung hat, aber einfach nicht die richtigen Worte findet, um das Entsetzen einer Zeit auszudrücken, die darauf besteht, uns ihren Schlund herzuzeigen.

Vorhin sah ich aus dem Fenster und dachte an die Bilder  dieser Tage. Bilder von Frauen auf der Flucht. Von dort, von jenen tragischen Aufbrüchen, bin ich ausgegangen, und jetzt bin ich am Ende meines kurzen Textes angelangt. Diese Worte zu schreiben war wie ein Seil auszuwerfen, an dem ich mich heute festklammern und durch diese schrecklichen Stunden in der Schwebe hangeln konnte.

Ja, vielleicht ist Schreiben für mich auch das.

Riva San Vitale
28. Februar 2022

Published July 4, 2022
© Prisca Agustoni 2022
© Martina Kempter 2022


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