Viva la Calabria, viva Pinocchio il calabrese, il figlio del falegname from Il popolo di legno

Written in Italian by Emanuele Trevi

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Cari amici che mi ascoltate, figli e figlie del falegname, oggi desidero parlarvi di una musica: una musica di pifferi e colpi di grancassa, come sta scritto nel capitolo nove delle Avventure di Pinocchio, il Vangelo di noi calabresi, il popolo di legno. Per come ce ne parla il suo autore, Carlo Collodi, l’ascoltare e il seguire questa musica rappresentano, da parte di Pinocchio, una colpa e una specie di tradimento. Ma noi, quando leggiamo un libro davvero importante, tanto importante che lo possiamo definire addirittura un Vangelo, l’ultima cosa su cui dobbiamo fare affidamento è l’opinione di chi lo ha scritto.

Questo Carlo Collodi, io lo conosco poco, non era nemmeno di qui, era di Firenze, e certo non era un dilettante. Da quello che ho capito, amava la vita: cucinava bene, frequentava belle donne, aveva molti amici. Buon per lui. Dei calabresi non aveva che un’idea vaga, come di gente lontana e selvatica: non ci avrà pensato nemmeno cinque minuti in vita sua. Giocava a carte, e aveva dei debiti. Per questo scriveva.

È un motivo per scrivere libri molto più nobile di tanti altri, quello di pagare i propri debiti. Ora, bisogna capire che lo Spirito non può scrivere i libri da solo. Sarebbero scritti in parole di fuoco, talmente abbaglianti da accecare e rendere pazzi chi le leggesse. Lo Spirito ha bisogno di gente come Carlo Collodi, il fiorentino. Ha bisogno della groppa di un asino per caricare un peso. Carlo Collodi era convinto di scrivere una scemenza per i ragazzini, e non ha mai sospettato di non essere davvero uno scrittore, mentre componeva Le avventure di Pinocchio, ma la penna dello Spirito. Finito il lavoro, passò poco tempo e gli prese un colpo, morí all’improvviso mentre pensava che cosa mangiare a cena.

Così lo Spirito, da che mondo è mondo, spezza la schiena ai suoi servi e li butta via. E così dobbiamo fare noi, se vogliamo capire il senso di certe cose contenute in questo libro: dobbiamo ascoltare lo Spirito, e lasciare da parte i pensieri di Carlo Collodi. Pace all’anima sua.

Adesso è alla musica, questa musica che sembra una colpa e non lo è per niente, che dobbiamo pensare. Il punto della storia forse ve lo ricordate: per mandare Pinocchio a scuola serve l’abbecedario con le lettere dell’alfabeto e i primi esercizi, ma Geppetto non ha un soldo e per comprarlo vende la sua unica giacchetta, vecchia e rattoppata. Geppetto è un brav’uomo e merita il nostro rispetto. Ma come tutti i padri, e soprattutto i buoni padri, non può avere idea di cosa è bene per Pinocchio. Come è nella natura della madre portarli nel ventre, così è nella natura dei padri essere sempre all’oscuro di ciò che è bene per i figli. Senza la cecità dei padri, i figli non saprebbero farsi strada nel mondo; se non avessero il ventre della madre, se non avessero nuotato beati in quell’acqua tiepida, non potrebbero rassegnarsi all’idea della morte.

La storia parla chiaro: con l’abbecedario sotto braccio, il libro per il quale Geppetto è rimasto a tremare mezzo nudo nel cuore dell’inverno, Pinocchio si dirige verso la scuola.

Forse non sa nemmeno bene cos’è, questa scuola, ma ci vuole andare, è sincero, vuole fare contento suo padre. Accade però un fatto strabiliante, un prodigio della nostra vita: che mentre noi ci dirigiamo verso il luogo in cui con tutto il cuore vogliamo andare, qualcosa fa sì che all’improvviso cambiamo idea, cambiamo strada, andiamo da un’altra parte.

Vuol dire che la nostra prima intenzione non era buona. Nel caso di Pinocchio, che poi è il caso di noi calabresi che ci riconosciamo nella sua storia, vuol dire che la scuola non era affatto un bene per lui – per noi. Ma non è che Pinocchio arriva a questa conclusione strada facendo, ragionandoci sopra. A volte le orecchie contano più del cervello. Ed ecco che le orecchie ascoltano questa musica, che viene da un’altra direzione, dal fondo di una strada che non è quella della scuola. Pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum. Questa musica è leggera come l’aria, è una musica da fiera, l’esca di qualche divertimento senza pretese, forse non può nemmeno essere definita una musica vera e propria: è un richiamo, una tentazione, pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum. Ma se immaginiamo di mettere sui due piatti di una bilancia da una parte la scuola, che è pesante come i cimiteri e le prigioni, e dall’altra la musica, una musichetta da morti di fame, pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum, vedremo che l’ago pende decisamente da quest’ultima parte, perché molte cose nel mondo possiedono solo un peso apparente, un peso di prepotenza e di impostura, ma sono vuote.

Tutti noi calabresi, fratelli e sorelle di legno, considerati come popolo con la sua storia lunga secoli, o come semplici individui, tutti noi calabresi siamo gente che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha tentato di mandare a scuola. O con le mazzate, che funzionano sempre, o con i metodi lacrimosi di Geppetto, quei favori che nessuno di noi ha mai richiesto e che sono ancora più traditori delle mazzate.

Ma cos’è una scuola? Fosse solo la scuola con i banchi e i professori, non sarebbe un problema grave. In quella scuola lì, puoi andarci e rimanere quello che vuoi. Ma il numero delle scuole supera quello dei peli nel culo del diavolo. Le scuole non sono fatte di banchi e di lavagne, ma di parole. Sono leggi, sono giornali e telegiornali, sono opinioni, partiti politici, consigli per la salute e prediche di preti. È una valanga di parole che intende farci credere, e alla fine ci riesce, di sapere meglio di noi chi siamo, quali sono i nostri veri desideri, cosa è meglio per noi. E questa cosa che è meglio per noi è sempre stata la stessa: fare finta il più possibile di assomigliare agli altri. Lo chiamano essere civili, essere moderni, essere europei: una razza d’uomini pallida e snervata, dove i diritti e i doveri sono uguali per tutti solo perché tutti i doveri e tutti i diritti si riducono all’ubbidienza e all’ipocrisia dei servi.

Ma con noi non ce la fanno mai davvero. Certe volte si illudono, perché ci compriamo dei giornali, o andiamo a votare. I romani, i visigoti, gli spagnoli, i piemontesi: si sono tutti illusi per qualche tempo. Perché loro non possono capire, non hanno le orecchie di legno, loro a scuola ci arrivano sempre, non la sentono, la musica,

pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum

pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum

pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum

o se la sentono si tappano le orecchie, si credono migliori degli altri perché fanno sacrifici, perché pensano al futuro, perché credono che ascoltare le lezioni della scuola perpetua come un ergastolo che è diventato il mondo gli servirà a qualcosa.

Ma noi, fratelli e sorelle del popolo di legno, anche se ci inchiodano i polsi e le caviglie a un banco, e ci costringono con i carri armati ad ascoltare la lezione, noi non impariamo mai nulla. È solo una finzione. Anche se siamo lí, siamo da un’altra parte, come Pinocchio. Il professore ci può urlare in faccia quello che vuole per la nostra educazione. Ma le orecchie di legno, a differenza di quelle di carne, sentono solo quello che vogliono sentire.

Pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum.

Non c’è nessuna vergogna in questo. Non hanno nulla da insegnarci. Chiudete gli occhi, pensateci bene, e quando li riaprite scoprirete che non c’è mai stata nessuna scuola, non c’è mai stato nulla da imparare oltre a quello che noi stessi ci siamo insegnati…

***

La maggiore difficoltà contenuta nel libro di Pinocchio, considerato come una bussola nel mare tormentoso della vita, come l’unico e autentico Vangelo del popolo di legno, è stabilire chi sono gli amici del burattino e chi sono i suoi nemici. Le cose non sono quasi mai quelle che sembrano. Solo le cose stupide sono esattamente quello che sembrano: il semaforo rosso significa fermati e nient’altro, un omino sulla porta significa che quello è il bagno degli uomini, e quando invece c’è una figura simile, ma con la gonna e i capelli lunghi, lì vanno le donne a fare quello che devono fare. Immaginate le nostre città tra cinquemila, diecimila anni, distrutte e seppellite. Ci saranno gli archeologi, desiderosi di scavare, perché sempre l’uomo ha avuto desiderio di vedere che c’era prima, come si facevano le cose. Adesso immaginate gente che non sa nulla di gabinetti pubblici, perché magari nel frattempo, tra cinque o diecimila anni, non c’è più bisogno di fare la cacca, di cambiarsi l’assorbente. E dai loro scavi tirano fuori tutte queste porte, con l’omino e la donnina attaccati sopra. Cosa potrebbero pensarne? Che erano dei coperchi di tombe, senza nomi né date? O magari le porte di luoghi di culto, piccole chiese private diverse per uomini e donne. Alla fine, potrebbero convincersi che dietro quelle porte noi, invece di sbrigare i nostri bisogni, stessimo lì a parlare con i nostri dèi, a indovinare il futuro, a diventare saggi.

Queste cose si possono dire anche dei libri, perché ogni volta che leggiamo delle parole è come se le scavassimo nelle sabbie della morte e della dimenticanza. Noi leggiamo, capiamo quello che ci conviene capire, quello che siamo in grado di capire, ed è come se le parole, in certe occasioni, ci facessero l’occhiolino o qualche altra smorfia, come per dire ma che minchia capisci, rifletti, ripensaci. Non è che leggiamo veramente, piuttosto ci pieghiamo all’abitudine, e crediamo di poter sapere solo quello che già sapevamo.

Così, per riprendere il discorso, noi vediamo apparire Lucignolo nel libro di Pinocchio e senza riflettere diciamo ecco l’amico cattivo, quello che lo aspetta sul fare della sera, quando tutti i bravi ragazzi tornano a casa, e se lo porta via! Povero Pinocchio, se non ci fosse stato questo fetente non sarebbe mai partito per il Paese dei Balocchi, mai si sarebbe svegliato una mattina trasformato in un asino! Tutti questi pensieri sono falsi, non hanno altro fondamento che il pregiudizio.

La verità è che Lucignolo, tra tutti gli amici di Pinocchio, è di gran lunga il migliore, il più fedele, l’unico capace di farlo evadere dalla gabbia dove tutti vogliono rinchiuderlo.

Riflettiamoci sopra. La sera in cui Pinocchio se ne va via con Lucignolo, la scuola lo ha quasi consumato. È addirittura bravo, impara, fa i compiti. Ma la cosa peggiore è che tutto questo prima o poi ha cominciato a sembrargli naturale. Il mondo si è ristretto, le porte della notte sono chiuse a doppia mandata. Dove altro potrebbe andare?

Ecco che arriva Lucignolo. Lucignolo è l’angelo custode. Distrugge la voglia che ha Pinocchio di tornare a scuola, un giorno dopo l’altro. Ma fa di più. Lucignolo distrugge l’illusione più grande che questa scuola sempre affamata produce negli animi. Non è solo l’illusione del sapere, che si possa sapere qualcosa, la storia, la matematica… Queste sono illusioni secondarie, e tutto sommato inoffensive. Si fa sempre più presto a dimenticare che a imparare. Io che ho fatto il seminario, vi posso assicurare che vi potete dimenticare pure le parole dell’Ave Maria, con un po’ di buona volontà.

No, amici che seguite questa trasmissione, sorelle e fratelli del popolo di legno: Lucignolo è lì per dimostrare per primo a Pinocchio, e dopo a tutti noi che leggiamo il suo libro che non è mai possibile migliorare la nostra vita, renderla più buona, più efficiente. Uno può rimboccarsi le maniche, seppellirsi sotto tutti i sacrifici che lui stesso si è scelto per questa impresa di diventare un altro, rivestirsi di tutte le virtù che non ha mai praticato e di tutta la pietà che non riesce a provare, ma questo brav’uomo, questo padre di famiglia, questo amico dell’umanità si è nascosto dentro un vestito di carnevale: basta tirare giù la zip ed eccolo di nuovo lì, sul ciglio della strada, sul fare della sera, lo stesso figlio di puttana che è sempre stato, libero da quella pesante carcassa di buone intenzioni. Lucignolo è lì ad aspettarlo perché ognuno ha diritto all’occasione di ricominciare la sua vera storia, che è la storia di quello che uno è, non la falsa storia delle sue intenzioni. Lucignolo è un essere raro, non meno raro e prezioso del suo amico Pinocchio. Non tutti hanno la fortuna di incontrarlo. Questa è una lezione sottile del nostro libro: ognuno si comporti con se stesso come Lucignolo, il lumino della notte.

Che Lucignolo sciolga il gelo dei nostri cuori congelati dalla menzogna, restituendo al legno quello che è del legno…

Published February 3, 2020
Excerpted from Emanuele Trevi, Il popolo di legno, Einaudi, Torino 2015
© 2015 Giulio Einaudi editore

Long live Calabria, long live Pinocchio, citizen of Calabria, the woodcarver’s son

Written in Italian by Emanuele Trevi


Translated into English by Antony Shugaar

Dear friends, lend me your ears, all you woodcarver’s sons and daughters, today I want to tell you all about a piece of music: it’s a music of fifes and the big bass drum, exactly as we read in chapter nine of The Adventures of Pinocchio, a book that is Gospel to all us Calabrians, people of the wood that we are. According to the description offered by the book’s author—Carlo Collodi—by listening to this music and tagging along after it, Pinocchio commits both an infraction and a sort of betrayal. But when we read a truly important book, a book so very important that we can even describe it as a Gospel, the last thing we should put our trust in is the opinion of the man who wrote it.

I don’t know much about this Carlo Collodi; he wasn’t even from around here, he was from Florence, and he was anything but a dilettante. From what I’ve been able to piece together, he loved the good life: he was an excellent cook, he enjoyed the company of beautiful women, he had plenty of friends. And good for him. He had nothing but a vague impression of the Calabrians, whom he saw as a faraway, savage people: he can’t have given them more than five minutes of thought in his whole lifetime. He played cards, and he ran up debts. And that is why he wrote books in the first place.

That reason for writing books is much nobler than so many others—to pay off your own debts. Now, you should realize that the Spirit can hardly write books all by itself. Those books would be written in words of fire, so dazzling that anyone who tried to read them would lose their eyesight and their mind. The Spirit makes use of people like Carlo Collodi, the Florentine. It needs a donkey’s back to carry a load. Carlo Collodi was certain he was writing a silly trifle for little kids. It never even crossed his mind, while he was composing The Adventures of Pinocchio, that he really wasn’t an author at all, but merely a pen in the hand of the Spirit. After he finished the book, only a short time passed before he died of a stroke, keeling over unexpectedly while thinking about what to have for dinner.

From time out of mind, that’s how the Spirit has always broken its servants’ backs and tossed them carelessly aside. And we must act accordingly, if we hope to grasp the meaning of certain things to be found in this book. We must listen to the Spirit, and set aside the things Carlo Collodi thought. May God rest his soul.

What we must think about now, instead, is the music, this music that seems to be an infraction but isn’t really at all. Perhaps you recall the point of the story—in order to send Pinocchio to school, Geppetto needs to procure a primer with all the letters of the alphabet and the first basic exercises, but Geppetto has not a penny to his name, so in order to buy it, he has to sell his only jacket, old and patched as it is. Geppetto is a good man and deserves our respect. But like all fathers, and especially the good ones, he can have no possible idea of what’s best for Pinocchio. Just as it’s in a mother’s nature to carry children in her womb, so it’s in a father’s nature to be entirely in the dark when it comes to their children’s best interests. Were it not for their fathers’ blindness, children could not hope to make their way in the world. Without their mothers’ wombs, had they never swum blissfully in that warm water, they’d be unable to reconcile themselves to the thought of death.

The story states it loud and clear—with his primer under his arm, the book that Geppetto had to shiver half-naked in the heart of winter to procure, Pinocchio sets off for school.

Perhaps Pinocchio doesn’t even really know what it is—this thing called school—but he wants to go, he’s sincere, he wants to make his father happy. Then, however, something astonishing befalls him, a prodigious portent of our life: it’s that just as we head off to the one place we desire with all our heart to go, something suddenly makes us change our mind, we redirect our footsteps, we turn away and go elsewhere.

It just means our first intention wasn’t a good one. In Pinocchio’s case, which is the same case as all us Calabrians, and why we identify with his story, it means that school was by no means a good thing for him—or for us. Careful, though: it’s not as if Pinocchio reaches this conclusion along the way, by carefully thinking it through. Sometimes the ears count for more than the brain. Sure enough, his ears perk up to this music, wafting along from a different direction, from down a street that doesn’t lead to the school. Pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum. This music floats light as a breeze, music you’d hear at a fair, the lure for some unassuming entertainment, perhaps it can’t even really be called full-fledged music—it’s an evocation, a temptation, pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum. But if we picture taking a scale and placing, in its two plates, on the one plate the school, as heavy as cemeteries and prisons, and on the other place, this music, a light little ditty, a music befitting the penniless, pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum, we quickly see that the needle of the scale veers sharply toward the latter of the two, because many things in this world possess only an apparent weight, the weight of bullying and deception, but are actually empty.

We Calabrians, brothers and sisters of the wood, considered as a people with centuries of history behind us, or as ordinary individuals, we Calabrians are people that someone, one way or another, once tried to send off to school. With either kicks and punches, which invariably succeed, or with Geppetto’s methods of whining and weeping, those favors none of us ever asked for, favors that are even more treacherous than kicks and punches.

But what is a school, anyway? If it were just the school itself, with its desks and its teachers, that wouldn’t be such a serious problem. After all, you can go to that sort of school and remain exactly what you want to be. But there are more schools than there are hairs on the devil’s ass. Schools aren’t made of desks and chalkboards, they’re made of words. They’re laws, they’re newspapers and television news broadcasts, they’re opinions, political parties, health recommendations and sermons preached by priests. They’re an avalanche of words meant to make us believe—and in the end they succeed—that they know better than we do who we are, what we really want, and what’s best for us. And this thing that’s better for us has always been the same: to pretend as hard as we can that we’re just like everybody else. They call it being civil, being modern, being European: a pale and nerveless breed of men, whose rights and duties are the same for one and all, but only because these rights and duties come down, when all is said and done, to the mere obedience and hypocrisy of serfs.

With us, though, they really never manage to pull it off. At times they fool themselves into thinking they’ve done it, because we buy newspapers, or we turn out to vote. The Romans, the Visigoths, the Spaniards, the Piedmontese: they’ve all lulled themselves into it, for a while. But they can’t understand, they lack wooden ears, they always show up at school, they can’t even hear it, the music,

pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum

pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum

pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum

or if they do, they clap their hands over their ears, thinking they’re better than the others because of their sacrifices, because they think of the future, because they believe that attending to the lessons at a school as endless as a life sentence without parole, which is what the world has become, will do them any good.

But we, brothers and sisters of the people of the wood, even if they nail our wrists and ankles to a school desk, even if they send tanks and soldiers to force us to listen to the lesson, we will still never learn a thing. It’s all make believe. Even when we’re there, we’re somewhere else, like Pinocchio. The teacher can shout in our faces, telling us anything he wants for our education. But wooden ears, unlike flesh ones, hear only what they want to hear.

Pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum.

There’s no shame in this. They have nothing to teach us. Shut your eyes, think it over carefully, and when you reopen them you’ll find there’s never been any school, there’s never been anything to learn but what we have taught ourselves…

***

The greatest difficulty to be found in the book of Pinocchio, considered as a compass on the stormy seas of life, as the sole, authentic Gospel of the people of the wood, is determining who are the marionette’s friends and who are his enemies. Things are almost never as they seem. Only stupid things are exactly what they seem: a red light means stop and not a thing more, a little man on a door means it’s a men’s bathroom, and if there’s a similar figure, only with a dress and long hair, then that’s a room where women go to do their business. Imagine our cities in five thousand or ten thousand years, destroyed and buried. No doubt there will be archaeologists hard at work, eagerly excavating, because people have always wanted to see what was there before us, and the way people used to do things. Now imagine people who know nothing about public restrooms, because who knows, maybe in the meantime, in say five or ten thousand years, there’s no need to take a poop, no need to change your tampon. And out of all their archaeological digs, they extract all these doors, with little men and little women emblazoned on them. What might they think of them? That these were the lids of burial vaults, lacking names and dates? Or perhaps doors to places of worship, small private shines, different for men and women. In the end, they may convince themselves that behind those doors, rather than performing our physical functions, we sat conversing with our gods, foretelling the future, attaining wisdom.

The same can be said of books, because every time we read words, it’s as if we were digging up the sands of death and oblivion. We read, we understand what it’s useful to us to understand, what we’re capable of understanding, and it’s as if, in certain instances, those very words had shot us a wink or some other grimace, as if trying to tell us, what the hell do you think you’re understanding? Stop and think, rethink it carefully. It’s not as if we’re really reading. No, what we really do is bend to the tyranny of habit, and we believe we can only know what we’ve always known.

Now, to return to the topic at hand, we see Candlewick appear in the book of Pinocchio and without giving it a second thought, we say to ourselves, ah, here’s the wicked friend, the bad company, the one who waits for him at nightfall, when all the other good boys have gone home, and leads him astray! Poor Pinocchio, had it not been for this little stinker, he’d never have set sail for Pleasure Island, he’d never have woken up one fine day transformed into a donkey! All these thoughts are false, they have no foundation other than prejudice.

The truth is that, of all Pinocchio’s friends, Candlewick is far and away the best, the most faithful, the only one who can help him escape from the cage everyone else wants to lock him up in.

Let’s give this further thought. The evening Pinocchio runs off with Candlewick, school has practically consumed him. He’s even a good student, he learns, he does his homework. But the worst thing is that all this, sooner or later, has started to seem natural. The world has narrowed around him, the doors of night are locked and double-locked. Where else could he go?

But that’s when Candlewick shows up. Candlewick is his guardian angel. He destroys any desire Pinocchio might still have to return to school, day after day. And that’s not all. Candlewick destroys the greatest illusion that this ravenous, all-consuming school produces in people’s souls. It’s not merely the illusion of knowledge, that it’s possible to know anything, history, mathematics… These are secondary illusions and, all things considered, relatively harmless ones. We’re always quicker to forget than to learn. I, for instance, attended seminary school, and I can assure you that it’s even possible to forget the words to the Hail Mary, if you put some effort into forgetting them.

No, my friends listening to this broadcast, sisters and brothers of the people of the wood: Candlewick is there to show Pinocchio, first and foremost, and after him, to show all the rest of us reading his book that it’s never possible to improve our life, to make if better and more effective. A person can roll up his sleeves, bury himself under all the sacrifices that he has chosen for this enterprise of becoming someone else entirely, drape himself in all the virtues he’s never practiced and all the pieties he can’t bring himself to feel, but still, this good man, this father and head of household, this friend to mankind has disguised himself in a carnival costume. He needs only to unzip that costume and there he is again, at the side of the road at nightfall, the same old son of a bitch he’s always been, freed of a heavy carcass of good intentions. Candlewick is right there, waiting, because everyone has the right to start his true story over again, which is the story of what he really is, not the false story of all his intentions. Candlewick is a rare creature, every bit as rare and precious as his friend Pinocchio. Not everyone is lucky enough to meet him. This is a subtle lesson of our book: let everyone treat herself or himself like Candlewick, the little flame in the night.

May Candlewick melt the ice in our hearts, frozen by falsehood, rendering unto the wood that which belongs to the wood…

Published February 3, 2020
Excerpted from Emanuele Trevi, Il popolo di legno, Einaudi, Torino 2015
© 2015 Giulio Einaudi editore
© 2020 Specimen

Vive la Calabre, vive Pinocchio le Calabrais, le fils du menuisier from Le Peuple de bois

Written in Italian by Emanuele Trevi


Translated into French by Marguerite Pozzoli

Cher amis qui m’écoutez, fils et filles du menuisier, aujourd’hui j’aimerais vous parler d’une musique : une musique de flûtes et de grosse caisse, comme il est écrit dans le chapitre neuf des Aventures de Pinocchio, notre Évangile à nous, Calabrais, le peuple de bois. Si l’on en croit l’auteur, Carlo Collodi, le fait d’écouter et de suivre cette musique représente, de là part de Pinocchio, une fauste et une sorte de trahison. Mais nous, quand nous lisons un livre vraiment important, tellement important que nous pouvons le définir comme un évangile, la dernière chose é laquelle nous devons nous fier est l’opinion de celui qui l’a écrit.

Ce Carlo Collodi, je ne le connais pas tris bien, il n’était même pas d’ici mais de Florence, et ce n’était sûrement pas un dilettante. Pour ce que j’ai compris, il aimait la vie, il cuisinait bien, il fréquentait de belles femmes, il avait beaucoup d’amis. Tant mieux pour lui. Il n’avait qu’une idée vague des Calabrais, qu’il voyait comme des gens très lointains et sauvages : au cours de sa vie, il n’a pas dû y penser plus de cinq minutes. Il jouait aux cartes et il avait des dettes. C’est pour ça qu’il écrivait.

Écrire des livres pour payer ses dettes est une raison bien plus noble que beaucoup d’autres. Mais il faut savoir que l’Esprit ne peut pas écrire des livres tout seul. Ils seraient écrits en lettres de feu, si éblouissantes qu’elles aveugleraient et rendraient fous ceux qui les liraient. L’Esprit a besoin de gens comme Carlo Collodi, le Florentin. Il a besoin du dos d’un âne pour porter une charge. Cario Collodi était convaincu d’écrire des inepties pour les enfants, et il n’a jamais soupçonné qu’il n’était pas vraiment un écrivain lorsqu’iI composait Les Aventures de Pinocchio mais la plume de l’Esprit. Fini ce travail peu de temps après il eut une attaque et mourut subitement, en pensant à ce qu’il mangerait pour le dîner.

C’est ainsi que l’Esprit, depuis que le monde est monde, casse l’échine de ses serviteurs et les jette. Et nous devons faire de même si nous voulons comprendre le sens de certaines choses contenues dans ce livre : nous devons écouter l’Esprit et laisser de côté les pensées de Carlo Collodi. Paix à son âme.

Maintenant, c’est à la musique, cette musique qui ressemble â une faute et qui ne l’est absolument pas, que nous devons penser. Le point crucial de l’histoire, vous vous en souvenez peut-être, est le suivant : pour envoyer Pinocchio â l’école, il faut un abécédaire avec les lettres de l’alphabet et les premiers exercices, mais Geppetto n’a pas un sou et pour l’acheter il vend son unique veste, vieille et rapiécée. Geppetto est un brave homme et il mérite notre respect. Mais comme tous les pères, et surtout les bons pères, il n’a aucune idée de ce qui est bon pour Pinocchio. De même qu’il est dans la nature des mères de les porter dans leur ventre, il est aussi dans la nature des pères de ne jamais savoir ce qui est bon pour leurs enfants. Sans l’aveuglement des pères, les enfants seraient incapables de se frayer un chemin dans le monde; s’ils n’avaient pas le ventre de leur mère, sils n ‘avaient pas nagé béatement dans cette eau tiède, ils ne pourraient pas se résigner â l’idée de la mort.

L’histoire parle clair : son abécédaire sous le bras — le livre à cause duquel Geppetto s’est retrouvé à demi nu et tremblant au coeur de l’hiver — Pinocchio se dirige vers l’école. Peut-être ne sait-il même pas exactement ce que c’est que cette école, mais il veut y aller, il est sincère, il veut faire plaisir â son père. Mais il se produit un fait sidérant, un prodige de notre vie : à savoir que pendant que nous nous dirigeons vers le lieu où, de tout notre coeur, nous souhaitons nous rendre, quelque chose fait que, subitement, nous changeons d’avis, nous changeons de route, nous allons ailleurs.

Cela veut dire que notre première intention n’était pas la bonne. Dans le cas de Pinocchio, qui est aussi, par ailleurs, le nôtre, celui des Calabrais que nous reconnaissons dans son histoire, cela veut dire que l’école n’était absolument pas une bonne chose pour lui — pour nous. Mais Pinocchio ne parvient pas à cette conclusion chemin faisant, réfléchissons là-dessus. Parfois, les oreilles comptent plus que le cerveau. Et voilà que les oreilles écoutent cette musique qui provient d’une autre direction, du fond d’une rue qui n’est pas celle de l’école. Pi-pì, pi-pì, pi-pì, zum zum zum zum, Cette musique est légère comme c’est une musique de foire, l’hameçon d’un divertissement sans prétention, peut-être ne peut-on même pas la definir comme une musique à proprement parler : c’est un appel, une tentation, pi-pì, pi-pì, pi-pì, zum zum zum zum. Mais si nous imaginons de mettre sur les deux plateaux d’une balance, d’un côté l’école, qui est aussi lourde que les cimetières et les prisons, de l’autre, la musique, une musiquette de crève-la-faim, pi-pi, pi-pì, pi-pì, zum zum zum zum, nous verrons que l’aiguille penche nettement du dernier côté, car beaucoup de choses dans le monde ne possèdent qu’un poids apparent, un poids d’arrogance et d’imposture, et sont vides.

Nous tous, Calabrais, frères et soeurs de bois, considérés comme un peuple avec son histoire séculaire ou comme de simples individus, nous tous, Calabrais, nous sommes des gens que quelqu’un, d’une manière ou d’une autre, a essayé d’envoyer à l’école. Tantôt avec des coups, un procédé qui fonctionne toujours, tantôt avec des méthodes larmoyantes comme celles de Geppetto, ces faveurs qu’aucun d’entre nous n’a jamais demandées et qui sont encore plus traîtresses que le coups.

Mais qu’est-ce qu’une école ? Sil ne s’agissait que de l’école avec les bancs et les professeurs, ce ne serait pas un problème grave.

Dans cette école-la, tu peux y aller et rester ce que tu veux être. Mais la quantité des écoles dépasse celle des poils du cul du diable. Les écoles ne sont pas constituées de bancs et de tableaux noirs, mais de mots. Ce sont des lois, ce sont des journaux et des informations télévisées, ce sont des opinions, des partis politiques et des conseils pour la santé et des sermons de curés. C’est une avalanche de mots â laquelle cette école prétend nous faire croire, et â la fin elle y arrive, c’est-à-dire qu’elle sait mieux que nous ce que nous sommes, quels sont nos vrais désirs, ce qui est le mieux pour nous. Et cette chose qui est le mieux pour nous a toujours été la même : faire semblant, le plus possible, de ressembler aux autres. Nous appelons cela être civilisés, être modernes, être européens : une race d’hommes pâle et mollassonne, où les droits et les devoirs sont les mêmes pour tous, pour la seule raison que tous les devoirs et tous les droits se réduisent à l’obéissance et à l’hypocrisie des laquais.

Mais avec vous, ils n’y parviennent jamais tout à fait. Parfois ils le croient, parce que nous leur achetons des journaux, ou parce que nous allons voter. Les Romains, les Wisigoths, les Espagnols, les Piémontais : tous se sont fait des illusions pendant quelque temps. Parce qu’ils ne peuvent pas comprendre, ils n’ont pas des oreilles de bois; eux, ils arrivent toujours à l’école, ils ne l’entendent pas, la musique,

pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum

pi-pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum

pi -pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zum,

ou s’ils l’entendent, ils se bouchent les oreilles, ils se croient meilleurs que les autres parce qu’ils font des sacrifices, parce qu’ils pensent à l’avenir, parce qu’ils croient qu’écouter les leçons de cette école â perpétuité qu’est devenu le monde leur servira à quelque chose.

Mais nous, frères et soeurs du peuple de bois, même si on nous cloue les poignets et les chevilles â un banc, même s’ils nous obligent avec des tanks à écouter la leçon, nous, nous n’apprenons jamais rien. Ce n’est qu’une apparence. Nous sommes là mais nous sommes ailleurs, comme Pinocchio. Le professeur peut nous hurler â la figure tout ce qu’il croit bon pour notre éducation. Mais les oreilles de bois, à la différence de celles de chair, n’en-tendent que ce qu’elles veulent bien entendre.

Pi pi, pi-pi, pi-pi, zum zum zum zurn.

Il n’y a aucune honte à cela. Ils n’ont rien à nous enseigner. Fermez les yeux, pensez-y bien et quand vous les rouvrirez, vous découvrirez qu’il n’y a jamais eu aucune école, il n’y a jamais rien eu à apprendre en dehors de ce que nous nous sommes enseigné à nous-mêmes…

***

La difficulté majeure que contient le livre de Pinocchio, considéré comme une boussole dans la mer tumultueuse de la vie, comme l’unique et authentique Évangile du peuple de bois, consiste à établir qui sont les amis de la marionnette et qui sont ses ennemis. Les choses ne sont jamais ce qu’elles paraissent. Seules les choses stupides sont exactement ce qu’elles paraissent : le feu rouge signifie seulement arrête-toi, et rien d’autre, un bonhomme sur une porte signifie que ce sont les toilettes pour hommes, alors que s’il y a une silhouette semblable, mais avec une jupe et des cheveux longs, le femmes vont dans cet endroit pour faire ce qu’elles ont à faire. Imaginez nos villes dans cinq mille ou dix mille ans, détruites et ensevelies. Il y aura des archéologues désireux de faire des fouilles, car l’homme a toujours éprouvé le désir de voir ce qu’il y avait avant, comment on vivait. Et maintenant, imaginez des gens qui ne savent rien des toilettes publiques parce que dans cinq mille ou dix mille ans, on m’ezura peut-être plus besoin de faire caca ou de changer de serviette hygiénique. Et leurs fouilles permettent d’exhumer toutes ces portes, avec le bonhomme et la bonne femme collés dessus. Que pourrait-on penser? Que c’étaient des couvercles de tombes, sans noms ni dates ? Ou bien, qui sait ?, les portes de certains lieux de culte, de petites églises privées, différentes selon que lion est un homme ou une ferme. À la fin, ils pourraient être persuadés que derrière ces portes, au lieu de satisfaire nos besoins, nous parlions avec nos dieux ou tentions de deviner l’avenir, de devenir sages.

Ces choses-là, on peut également les dire des livres, parce que chaque fois que nous lisons des mots, c’est comme si nous les extrayions des sables de la mort et de l’oubli. Nous lisons, nous comprenons ce qu’il nous convient de comprendre, ce que nous sommes en mesure de comprendre et c’est comme si les mots, à certaines occasions, nous adressaient un clin d’oeil ou une grimace quelconque comme pour dire qu’est-ce que tu crois comprendre, pauvre con, réfléchis, penses-y. En fait, nous ne lisons pas vraiment, nous nous plions plutôt à l’habitude, et nous croyons que nous ne pouvons savoir que ce que nous savions déjà.

Et donc, pour reprendre le fil de notre propos, nous voyons apparaître Lumignon dans le livre de Pinocchio, et sans réfléchir, nous disons voilà l’ami mauvais conseiller, celui qui l’attend à la tombée de la nuit, quand tous les enfants sages rentrent à la maison, et il l’emmène avec lui ! Pauvre Pinocchio, s’il n’y avait pas eu cette crapule, il ne serait jamais parti pour le Pays des Jouets, jamais il ne se serait réveillé un beau matin transformé en âne ! Toutes ces idées sont erronées, uniquement fondées sur un préjugé.

La vérité est que, de tous les amis de Pinocchio, Lumignon est de très loin le meilleur, le plus fidèle, le seul capable de le faire évader de la cage dans laquelle tout le monde veut l’enfermer.

Réfléchissons là-dessus. Le soir où Pinocchio s’en va avec Lumignon, l’école là presque déjà usé. C’est un bon élève, il apprend, il fait ses devoirs. Mais le pire, c’est que, tôt ou tard, tout cela a commencé à lui paraître naturel. Le monde a rétréci, les portes del nuit sont fermées à double tour. Où pourrait-il bien aller ?

Voilà qu’arrive Lumignon. Lumignon est l’ange gardien. Il détruit, jour après jour, l’envie qu’a Pinocchio de retourner â l’école. Mais ce n’est pas tout. Lumignon détruit la plus grande illusion que cette école, toujours affamée, produit dans les âmes. Ce n’est pas seulement l’illusion du savoir, l’illusion que l’on peut savoir quelque chose, l’histoire, les mathématiques… Ce sont là des illusions secondaires et, somme toute, inoffensives. On a toujours plus vite fait d’oublier que d’apprendre. Moi qui ai été séminariste, je suis bien placé pour vous assurer que vous pouvez oublier même les mots du Je vous salue Marie, avec un peu de bonne volonté.

Non, amis qui suivez cette émission, fréres et soeurs du peuple de bois : Lumignon est la pour démontrer, d’abord à Pinocchio, puis à nous tous qui lisons ce livre, qu’il n’est jamais possible d’améliorer notre vie, de la rendre meilleure, plus efficace.  Le type a beau se retrousser les manches, crouler sous les sacrifices qu’il a lui-même choisis en vue de cette entreprise pour devenir un autre, se parer de toutes les vertus qu’il n’a jamais pratiquées et de toute la pitié qu’il ne parvient pas à éprouver : ce brave homme, ce père de famille, cet ami de l’humanité s’est caché dans un habit de carnaval : il suffit de baisser la fermeture Éclair et le voilà de nouveau au bord de la route, â la tombée de la nuit, le même fils de pute qu’il a toujours été, libre de cette pesante carcasse de bonnes intentions. Lumignon est là à l’attendre parce que chacun a droit à une occasion pour recommencer sa véritable histoire, qui est l’histoire de ce qu’il est, et non l’histoire, fausse, de ses intentions. Lumignon est un être rare, non moins rare et précieux que son ami Pinocchio. Tout le monde n’a pas la chance de le rencontrer. C’est là la leçon, subtile, de notre livre : que chacun se comporte avec lui-même comme Lumignon, la petite lumière de la nuit.

Que Lumignon fisse fondre la glace de nos coeurs congelés par le mensonge, rendant au bois ce qui est au bois…

Published February 3, 2020
Excerpted from Emanuele Trevi, Le Peuple de bois, Actes Sud 2017
© 2017 Actes Sud


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