Discorso di accettazione

Written in Italian by Elisa Tramontin

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Innanzitutto vorrei ringraziare il laboratorio Formentini per l’editoria e il festival Babel, nonché la giuria composta da queste grandi traduttrici, che sono sempre un modello a cui ispirarsi, non solo per aver deciso di onorarmi con questo premio, ma anche per aver avuto l’idea di istituire un riconoscimento che permette ai giovani traduttori di emergere in un mondo che si fa sempre più difficile. Quando ho ricevuto la mail che diceva che ero tra le finaliste, sono rimasta attonita e ho provato un’immensa soddisfazione.

Prima di cominciare a parlare però voglio fare i miei migliori complimenti alle altre due finaliste, Francesca e Daniela, che oltre a essere colleghe sono due amiche, brave, competenti e in gamba, estremamente consapevoli del mestiere del traduttore. Loro tra l’altro sono giovani davvero!

Ringrazio ovviamente anche tutta la squadra della Nuova Frontiera, con cui collaboro da anni e con cui ho avuto la possibilità di esplorare la pluralità e la ricchezza della lingua spagnola delle diverse zone geografiche in cui viene parlata.

Quando mi è arrivata la proposta di tradurre Lascia fare a me mi sono subito emozionata. Avevo già avuto a che fare con l’Uruguay anni fa quando mi era stata affidata la traduzione di due romanzi di Mario Benedetti. Per tradurre il secondo avevo deciso di partire per Montevideo, dove sono stata due mesi, non solo per motivi turistici, ma soprattutto perché mi sembrava imprescindibile avere un contatto reale con quel mondo e quell’umanità che lui descriveva così dettagliatamente, e ovviare alla mancanza di filo diretto che i traduttori cercano sempre di creare con lo scrittore, dato che, come nel caso di Levrero, anche Benedetti non poteva più rispondere alle mie mail.

I casi della vita mi hanno poi portato a non poter più viaggiare, e mi sono quindi dovuta accontentare di farlo attraverso le pagine di Levrero, scoprendo un Uruguay che avrei però presto capito essere ben diverso da quello di Mario Benedetti. In realtà in Levrero l’Uruguay è molto meno “fisico” e “protagonista” che in Benedetti, sia dal punto di vista linguistico sia da quello geografico. Si palesa in un modo più discreto, fa capolino con lievi allusioni che Levrero dissemina nel suo libro, tutte in chiave prettamente ironica e sarcastica, dalle prese in giro neanche tanto velate sulla natura dell’uomo uruguaiano e sulle sue caratteristiche, al malcelato (o più che altro finto) senso di inferiorità rispetto al grande dirimpettaio argentino: un paese che non è un paese, il senso di colpa sempre latente, una democrazia che non è una democrazia, il continuo ripetersi dei nomi delle vie e delle piazze, l’eterno ritardo dei mezzi pubblici, i riferimenti alla murga… Sono tutte cose che c’erano nell’Uruguay di Benedetti, e anche in quello che ho visto io, ma sulla pagina bianca sono diventati un lungo elenco di questioni e problemi di traduzione. Come spiegare, per esempio, cos’è la murga a chi non c’è mai stato, non sa che cos’è e non ha idea di cosa rappresenti per un uruguaiano? In Lascia fare a me la murga è diventata “il carnevale”, dopo non pochi ripensamenti, rimpianti e rimproveri. Ma era davvero possibile far capire cos’è una murga evitando la famigerata NdT? Come tutti i miei colleghi ben sanno, questo è uno dei dilemmi più ricorrenti per chi traduce, e la sensazione di aver fatto la scelta sbagliata, di aver semplificato troppo, oppure di aver dato per scontata una comprensione che invece è rimasta faticosa, non ti abbandona mai.

A questo punto però devo dire una cosa: nonostante i menzionati dilemmi del traduttore siano stati, come al solito, molto presenti durante il lavoro, nella prima lettura dell’originale di Lascia fare a me non ci ho minimamente pensato. È stata una lettura durata un soffio, come tutte le belle letture, e mi sono lasciata trasportare e basta. E solo quando ho finito ho pensato: “E adesso? Come faccio a rendere questo libro un soffio anche per i lettori italiani?”. Avendo alle spalle un po’ di esperienza, sapevo che proprio i libri apparentemente più semplici e “leggeri” sono quelli che riservano le maggiori insidie.

Quando finalmente ho cominciato a tradurre, sono incappata in un grosso scoglio: scrivevo, traducevo, evidenziavo, rileggevo il giorno dopo quello che avevo scritto e qualcosa non funzionava, ma non capivo cosa. Apparentemente era una traduzione che non avrebbe dovuto presentare troppi problemi: non era marcatamente rioplatense, con tutte le gioie e i dolori che comporta lo spagnolo del Cono Sur rispetto al castigliano di Spagna, lo stile era quello di un poliziesco, non c’era troppo discorso diretto, le frasi idiomatiche e i giochi di parole non abbondavano… eppure… c’era qualcosa che non funzionava. Non “girava”.

Per non farmi sopraffare, continuavo ad andare avanti, ma c’era qualcosa in quelle pagine che mi si opponeva, faceva resistenza. Forse ero influenzata anche dalla concomitanza con un altro lavoro, un impegnativo saggio, in spagnolo di Spagna, il quale mi stava richiedendo tutto un altro tipo di sforzo. Qualsiasi fosse il mio problema, mi stava impedendo, o almeno questo pensavo, di entrare nel vivo di questo “romanzetto”, di questa “novelita”, come la chiama Levrero nell’epigrafe. Adesso, a posteriori ovviamente, penso che forse mi mancava l’immersione, a mio avviso fondamentale, in quella che è la vita di tutti i giorni, al di là dei libri, delle teorie, delle recensioni, dei trattati. Forse, dopo mesi di saggistica, avevo accantonato, per forza di cose, l’ascolto del “là fuori”, della piazza, delle battute umoristiche al mercato, del linguaggio parlato, di tutto quello, insomma, di cui è fatto il libro di Levrero. L’empatia che sentivo sempre di più nei confronti del testo e dell’autore è stata poi confermata quando sono incappata in una sua intervista nella quale ha detto: “È un errore cercare fonti esclusivamente letterarie per la letteratura, come se un produttore di formaggi dovesse alimentarsi esclusivamente di formaggi”.

Forse è stato proprio quando ho capito questo, arrivata ormai alla seconda stesura, che sono veramente entrata nel libro. L’ho preso per le corna. L’ho capito, mi è piaciuto a un livello diverso, più profondo, più consapevole. L’ho sentito molto di più. E mi sono lanciata, come non mai, senza più timori, nella rielaborazione; affrontando anche l’annoso problema della ricerca di sinonimi, di cui in realtà Levrero non ha avuto bisogno per veicolare il suo umorismo, ma che noi nell’italiano bramiamo, perché ci arricchisce, ci colora, ci ispira. È stato sull’onda di quella ricerca che “sforzarsi” è diventato “arrovellarsi”, e “risparmiati il discorso” è diventato “risparmiati il sermone”, o “il predicozzo”, in un altro caso, e “pensando al pubblico” è diventato “pur di ingraziarmi il pubblico”… Se nella prima stesura ero ancora alle prese con le mie remore sulla ricerca fine a se stessa del sinonimo, una ricerca che mi lascia sempre perplessa, in questa seconda fase ho finalmente capito che quell’arrovellarmi sulle parole non era affatto fine a se stesso, né dettato da un’atavica paura della ripetizione: ero faticosamente riuscita a entrare nel vivo di Lascia fare a me, avevo attinto a quelle “fonti non letterarie” che nella prima stesura avevo sentito così lontane, e non stavo più ricercando un semplice sinonimo, una parola equivalente, ma la parola giusta, quella che rendeva giustizia all’immaginario, all’atmosfera e al colore del mondo di Levrero, nel quale mi si era finalmente aperto un varco.

Si potrebbe pensare che da qui in avanti sia stata una passeggiata, ma la verità è che questi momenti epifanici, che tutti i traduttori sperimentano, sono tanto benedetti quanto effimeri. Arriva sempre il momento in cui pensi di avere capito e allora ti butti a capofitto nel testo, ma all’improvviso i dubbi riaffiorano, e a loro si aggiungono quelli ancora più amletici, tipo: “Ma se lui non usa i sinonimi, perché io invece li devo usare?”, oppure “Qual è il metro di misura del rispetto e della fedeltà all’originale, dove si trova il confine?” “Ma se lui, o lei, ha scritto così, io che ci posso fare?”

Anche mentre pensavo a questo, mi rimaneva la sensazione sempre latente che potrebbe essere un atto di presunzione cambiare, appunto, “sforzarsi” con “arrovellarsi”, e “discorso” con “sermone”.

Sono domande inevitabili e credo sia anche giusto e sano porsele sempre e, al massimo, dopo un po’, cominciare a darsi delle risposte più o meno convincenti; anche perché alla fine una decisione va comunque presa, il libro deve pur sempre andare in stampa. Perciò a un certo punto bisogna farsene una ragione e cercare di convincersi che non si sta facendo nessun torto all’autore, nessuno sgambetto, anzi… Per quanto mi riguarda, nel tempo, alcune revisioni illuminanti, le chiacchierate con i colleghi, l’esperienza sul campo hanno fatto virare il mio modo di tradurre, ed è per questo che, sebbene il lavoro del traduttore rimanga un lavoro solitario, i momenti di condivisione sono sempre molto importanti.

Dopo aver visto le luci e le ombre della vita del traduttore, vorrei però concludere su una nota positiva: crescendo si impara, e infatti questo libro per me è stato diverso. Mi sono immedesimata come non mai con l’autore, con il suo pessimismo, con le sue paranoie, la sua ipocondria, la sua goffaggine, i suoi sbandamenti onirici, la smemoratezza, l’incapacità di tenere a mente un nome, (ma un volto sì, al contrario di lui) il suo umorismo non sempre immediato (da montanara veneta che abita a Roma è un aspetto con cui mi scontro quotidianamente…) e mi sono sentita libera, più coraggiosa, più sicura.

A questo proposito, mi sovviene il discorso di Claudia Zonghetti a cui ho assistito alle Giornate della Traduzione dell’anno scorso, quando ha ricevuto il premio Enriques. Ricordo la sua commozione, e anche la mia, devo dire. La passione degli altri mi suscita sempre un’emozione forte. Ricordo in particolar modo la sua resistenza a definirsi co-autrice di un romanzo, ma piuttosto autrice di una traduzione. Neanch’io mi sento una co-autrice. E forse ancora non so se mi sento autrice della mia traduzione.

Quello che so di sicuro è che sto percorrendo una strada, e ho ancora tanta voglia di fare, di tradurre, di sbattere la testa, di dannarmi, ma soprattutto ho tanta voglia di esultare per quelle epifanie che capitano quando, finalmente, trovo la parola giusta. O almeno spero.

Vorrei infine dedicare questo premio a mio zio, che con questo libro si sarebbe fatto una risata, e ai boschi feriti del bellunese che mi hanno visto crescere.

Grazie.

Published December 3, 2018
© Elisa Tramontin 2018


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Il Premio Babel-Laboratorio Formentini 2018 per giovani traduttori di lingua italiana  è stato assegnato a Elisa Tramontin il 18 novembre nell’ambito di Bookcity Milano. Abbiamo chiesto a Elisa e alle altre due finaliste, Daniela de Lorenzo e Francesca Bononi, di scegliere un passo dai romanzi che hanno tradotto: Lascia fare a me di Mario Levrero (La nuova frontiera), Lo specchio vuoto di Samir Toumi (Mesogea) e La libreria della rue Charras di Kaouther Adimi (L’orma).

The 2018 Babel-Laboratorio Formentini Award for Emerging Translators will be given on Sunday, November 18 during Bookcity Milano. To get acquainted with the translations that made it to the final round, we asked finalists Daniela de Lorenzo, Elisa Tramontin, and Francesca Bononi to choose a passage from the novels they translated: Samir Toumi’s Lo specchio vuoto (Mesogea), Mario Levrero’s Lascia fare a me  (La nuova frontiera) and Kaouther Adimi’s La libreria della rue Charras (L’orma), respectively.


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