From L’estate muore giovane

Written in Italian by Mirko Sabatino

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Prologo

Quando sei solo le cose ti succedono tutte intere.

In teoria questa legge dovrebbe valere anche per la felicità, ma non le si adatta per via di quella parola – solo – intorno alla quale la felicità, per quanto si possa sistemarla, tirarla, rincalzarla, fa sempre le grinze. Avevo dodici anni e mezzo quando ho cominciato a essere solo, e da allora non ho mai smesso. È diventata un’attività, piú che una condizione. Per cui, quando ho saputo che l’avrebbero tirata fuori, sono tornato nel mio paese natale cosí come, parecchi anni prima, me n’ero andato.

Solo.

Guardo i due sommozzatori mentre si preparano all’immersione. Uno dei due, a dispetto dell’arrogante prestanza fisica, ha fili grigi che gli screziano le tempie; l’altro, un biondino giovane ed esile, ha il sorriso nello sguardo, gli occhi ancora disponibili allo stupore.

Per il sommozzatore con i fili grigi sulle tempie è soltanto lavoro, quasi ordinario lavoro, ma per il sub piú giovane deve trattarsi di quello che è, nella sua assurda evidenza: una mietitrebbia sepolta nelle acque dell’Adriatico dagli anni sessanta.

Successe nell’estate del 1963. Avevamo dodici anni, ed eravamo talmente piccoli, quell’estate, che i nostri corpi non andavano molto oltre la maglietta e i pantaloncini con cui eravamo vestiti. Quell’anno i Beatles varcarono la soglia degli Abbey Road Studios e tredici ore dopo consegnarono al mondo il loro primo LP, papa Giovanni XXIII morí dopo quasi cinque anni di pontificato e tre giorni di agonia, Martin Luther King annunciò all’America che aveva un sogno, John Fitzgerald Kennedy perse la carica di presidente e la vita a bordo di una limousine, una frana sollevò un’inondazione che cancellò dall’Italia Longarone e i suoi abitanti. Ma tutto questo succedeva sui giornali, alla radio e, per i pochi che ce l’avevano, alla televisione: ciò che accadeva davvero nel mondo, per noi, erano i vicoli del nostro paese.

Una piazza, una chiesa, una drogheria, una macelleria, un bar, un forno, una scuola elementare, una scuola media, un’edicola, un ambulatorio medico, un ambulatorio veterinario, un negozio di vestiti e calzature a buon mercato, le case bianche e basse.

E i vicoli.

Dove le madri nei pomeriggi sonnolenti richiamavano i figli con voci lente e cantilenanti, e le vecchie di sera se ne stavano sedute sulle sedie, sulla soglia delle loro case, a sventolarsi pigramente col ventaglio, mentre i loro mariti passeggiavano con le mani incrociate dietro la schiena, ostinatamente, obsoletamente eleganti nel loro unico vestito, le facce serie e dure incise dal sole.

Forse gli avvenimenti che scandirono il 1963 non ci bastarono, o non ci sembrarono abbastanza reali. Forse è per quello che decidemmo di dare il nostro piccolo, silenzioso contributo alla storia.

Quell’anno c’eravamo io, Mimmo e Damiano. C’eravamo soprattutto noi.

1

Era stato il dolore a fargli perdere la testa, mentre era ancora a cavalcioni del cancello, le mani di Sabino Canosa che dal basso gli premevano la coscia nuda sul metallo arroventato dal sole di mezzogiorno. Si stava divertendo, Canosa; allentava la presa, lasciando che la pelle della gamba di Mimmo si staccasse dal metallo, quindi tornava a schiacciare, aumentando gradualmente l’intensità e la durata della pressione.

Poi il calore aveva raggiunto il cuore della carne di Mimmo, e il mio amico aveva perso il controllo, la volontà. La lingua si era slacciata. Le aveva dette, quelle parole, e non poteva piú tornare indietro.

“Lasciami, quella puttana di tua madre!”

Sabino smise di ridere come smette di piovere, a volte, l’estate: di colpo. Lasciò che Mimmo portasse l’altra gamba al di qua del cancello; poi gli agganciò fulmineamente la caviglia con entrambe le mani e lo strattonò giú con violenza. Mimmo rovinò sulla ghiaia e si sbucciò le ginocchia; Sabino lo afferrò per i capelli e lo trascinò sulla brecciolina come un sacco, mentre Mimmo tentava di rimettersi in piedi, inciampando e cadendo e strisciando le ferite vive sul suolo polveroso. Canosa lo sollevò di peso per i capelli, e con la destra gli sferrò uno schiaffo violentissimo che gli fece girare la testa sul collo.

Mimmo si accasciò, mise le mani per terra per non urtare la faccia contro la breccia; Sabino sollevò il ginocchio fino al petto e con il piede gli pestò le dita della mano. Il mio amico cacciò un urlo gutturale, ritrasse la mano e se la raccolse nell’altra. Oscillò avanti e indietro, cullandosi il dolore contro il petto, piagnucolando in silenzio.

Sabino lo guardava dall’alto, come fosse un insetto. Affondò le dita nella testa da puttino di Mimmo e tirò forte all’indietro.

“Ciccione di merda. Mia madre non la devi nemmeno nominare. Mia madre è una santa”.

Sputi di saliva spruzzavano sul volto terrorizzato di Mimmo. Poi Sabino tese il braccio all’indietro e gli assestò un altro schiaffo, dall’alto verso il basso.

Io potevo solo guardare. Cosimo e Salvatore erano alle mie spalle e mi tenevano immobilizzato. Sentivo l’odore metallico del loro sudore. Se ci fosse Damiano, pensavo, se solo ci fosse Damiano.

Ci fu un giro di cenni e di sguardi, poi Salvatore andò dietro a Mimmo. Sabino arretrò, come per studiarselo. Con gesto pulito e metodico, arrotolò tra le dita l’orlo inferiore della maglietta di Mimmo, fin sotto il mento. La pancia bianchiccia e prominente del mio amico era sotto gli occhi di tutti, come una colpa. Sentii il sibilo della cintura di cuoio che sgusciava attraverso i passanti dei pantaloncini di Sabino. Canosa tese la cintura tra le mani, producendo un duplice schiocco.

Io e Mimmo stavamo soltanto guardando la partita che si svolgeva sulla ghiaia riarsa dal sole – un campo da calcio improvvisato nello spiazzo antistante la villa di Potito Capece, due mucchietti di pietre come pali e Sabino e Cosimo che si passavano la palla e la calciavano nella porta senza rete, che Salvatore presidiava molleggiando sulle gambe. Poi il pallone che si impenna e scavalca il muro di cinta della villa, Sabino che ordina a Mimmo di recuperarlo. Mimmo che obbedisce perché a chiederlo è Sabino Canosa, quindici anni e il corpo tozzo e duro di un toro, ma anche perché ha il suo tornaconto: quello non è un pallone qualunque. È una reliquia. Mimmo avrebbe avuto l’opportunità di toccarlo, il pallone che un Omar Sívori incongruo come un’apparizione aveva autografato a Sabino pochi giorni prima, materializzandosi dal nulla nel nostro paese sperduto del Gargano.

Sabino sollevò la cintura nell’aria e sferrò un primo colpo al suolo, come un domatore. Mimmo strizzò gli occhi d’istinto. Sabino ripiegò la cintura su se stessa.

“Frustalo, quel porco!” si esaltò Cosimo alle mie spalle, e io trovai un varco nella sua presa. Partii di corsa verso Mimmo, ma Cosimo mi artigliò un polso, mi fece voltare e mi colpí con un pugno alla bocca dello stomaco.

Caddi in ginocchio. L’ossigeno abbandonò i miei polmoni.

Sentii le mani di Cosimo che mi sollevavano da terra, le braccia serrarmi di nuovo le spalle. Cercavo di succhiare aria – invano. Vidi il braccio di Sabino flettersi, la cintura abbassarsi e percuotere la pancia nuda di Mimmo. Mimmo emise un grido rauco che gli ferí la gola, ma quello era solo il principio. Gli occhi sgranati e colmi d’odio, Sabino diede inizio a una furiosa flagellazione. I colpi, sempre piú violenti, cadevano a intervalli via via piú serrati. Le urla di Mimmo si alzavano atroci, arcaiche. Piú sudava, Sabino, piú perdeva energia, piú recuperava forza. Il suo corpo era tutt’uno con il braccio, e colpiva con forsennata fluidità. Non era piú un gioco sadico; non era piú nemmeno una punizione, né l’esercizio inebriante della violenza fine a se stessa. Era oltre l’odio. Se qualcuno non fosse intervenuto, Sabino non si sarebbe fermato piú.

All’improvviso, un filo d’aria trovò la strada verso i miei polmoni; sentii lo stomaco contrarsi e rilassarsi violentemente, e un fiotto acido mi sgorgò dalla gola.

Cosimo mi spinse via disgustato, ma là dove gli altri cedevano al fastidio, Sabino vedeva delle opportunità. Gettò la cintura per terra, strappò Mimmo dalla presa di Salvatore e lo trascinò per i capelli fino alla pozza prodotta dai miei succhi gastrici. Mi guardò: la
cicatrice che aveva sullo zigomo sinistro, appena sotto l’occhio, luccicava di sudore.

“Lecca,” disse rivolgendosi a Mimmo. Ma guardava me. Aveva un’esaltazione nuova negli occhi.

Premette la mano contro la nuca di Mimmo e cercò di spingergli la faccia nel vomito, ma Mimmo tendeva i muscoli del collo, resisteva strenuamente.

“Lecca!” ordinò Sabino, e gli diede un forte calcio nel fianco. Si sentí un urlo; Canosa si voltò verso i vicoli. Prima di lasciarlo andare, sputò in faccia a Mimmo.

Don Gerardo correva nella nostra direzione tenendosi la tonaca sollevata tra le dita, e quando ci raggiunse scalciò con le sue gambette a vuoto, disperdendo Sabino e gli amici come fossero cani. I tre se ne andarono ridendo e facendo gestacci.

“Disgraziati,” mormorò il parroco, mentre con il fazzoletto si tergeva il sudore dalla fronte. “Tutto a posto?”

Annuii, cercando di non incontrare il suo sguardo. Non volevo, non potevo essere costretto a ringraziarlo.

Mi avvicinai a Mimmo. Piangeva sommessamente, biascicava parole senza senso – la maglietta arrotolata sotto al collo, la pancia arroventata dai colpi. Con la mano, gli asciugai la saliva di Sabino dal viso. Scosso dai singhiozzi, Mimmo si infilò meccanicamente le dita nella tasca dei pantaloncini, e ne estrasse una boccettina di plastica. Conteneva acqua santa; gliel’aveva regalata sua madre per il suo dodicesimo compleanno; Mimmo non se ne separava mai. Voleva solo assicurarsi che fosse ancora lí, perché subito dopo la ripose nella tasca e fece per avviarsi verso i vicoli, lo sguardo annegato nelle lacrime.

Lo presi dolcemente per un braccio e Mimmo si fermò. Gli srotolai la maglietta, piano, e gli coprii la pancia.

Ci allontanammo dallo spiazzo mentre don Gerardo, immobile e muto, ci conteneva nel suo sguardo.

Published October 5, 2018
Excerpted from L’estate muore giovane, Nottetempo 2018
© Edizioni Nottetempo 2018

From L’été est fini

Written in Italian by Mirko Sabatino


Translated into French by Lise Caillat

Prologue

Quand on est seul, les choses nous arrivent tout entières.

En théorie cette règle devrait valoir aussi pour le bonheur, mais elle n’y parvient pas à cause de ce mot – seul – autour duquel le bonheur, qu’on a beau arranger, hisser, caler, achoppe toujours.

J’avais douze ans et demi quand j’ai commencé à être seul, et depuis lors je n’ai jamais cessé de l’être. C’est devenu une activité, plus qu’une condition. Ainsi, quand j’ai su qu’on allait la repêcher, je suis retourné dans mon village natal exactement comme, il y a plusieurs années, je l’avais quitté.

Seul.

Je regarde les deux plongeurs se préparer. L’un des deux, malgré son arrogante prestance, a des fils gris qui hachurent ses tempes ; l’autre, un petit blond jeune et fluet, a le regard souriant, les yeux encore enclins à la stupeur.

Pour le plongeur avec les fils gris sur les tempes c’est juste un travail, un travail ordinaire presque, mais pour le plus jeune il doit s’agir de ce que c’est, dans son absurde évidence : une moissonneuse-batteuse noyée sous les eaux de l’Adriatique depuis les années soixante.

C’est arrivé durant l’été 1963. Nous avions douze ans, et nous étions tellement petits, alors, que nos corps ne s’aventuraient guère au-delà du tee-shirt et du short dont nous étions vêtus.

Cette année-là les Beatles franchirent le seuil des studios Abbey Road et treize heures après ils livrèrent au monde leur premier 33 tours, le pape Jean XXIII mourut au bout de presque cinq années de pontificat et trois jours d’agonie, Martin Luther King annonça à l’Amérique qu’il avait un rêve, John Fitzgerald Kennedy perdit son poste de président et la vie à bord d’une limousine, un éboulement provoqua une inondation qui effaça de la carte d’Italie Longarone et ses habitants. Mais tout cela existait dans les journaux, à la radio et, pour les rares qui l’avaient, à la télévision : ce qui existait vraiment dans le monde, pour nous, c’étaient les ruelles de notre village.

Une place, une église, une épicerie, une boucherie, un bar, une boulangerie, une école primaire, un collège, un kiosque à journaux, un dispensaire, un centre vétérinaire, un magasin de vêtements et de chaussures à bon marché, les maisons blanches et basses.

Et les ruelles.

Où au cœur des après-midi somnolents les mères appelaient leurs enfants avec des voix lentes et monocordes, où le soir les vieilles restaient assises sur une chaise, devant chez elles, agitant paresseusement un éventail, pendant que leurs maris se promenaient les mains croisées derrière le dos, obstinément, dans l’élégance surannée de leur unique costume, les visages graves et durs ravinés par le soleil.

Peut-être que les événements qui marquèrent l’année 1963 ne nous suffirent pas, ou ne nous semblèrent pas assez réels. Peut-être est-ce pour cela que nous décidâmes d’apporter notre petite, silencieuse, contribution à l’histoire.

Cette année-là il y avait Mimmo, Damiano et moi. Il y avait surtout nous.

1

C’était la douleur qui lui avait fait perdre la tête, alors qu’il était encore à califourchon sur le portail, avec les mains de Sabino Canosa qui d’en bas pressaient sa cuisse nue sur le métal chauffé au rouge par le soleil de midi. Il s’amusait, Canosa ; relâchait sa prise pour que la peau de la jambe de Mimmo se détache du métal, et il l’écrasait à nouveau, en augmentant graduellement l’intensité et la durée de pression.

Puis la chaleur avait atteint le cœur de la chair de Mimmo, et mon ami avait perdu le contrôle, la volonté. Sa langue s’était déliée. Il les avait dits, ces mots, et ne pouvait plus revenir en arrière.

« Lâche-moi, putain de ta mère ! »

Sabino cessa de rire comme il cesse de pleuvoir, parfois, l’été : d’un coup. Il attendit que Mimmo ait passé l’autre jambe par-dessus le portail ; alors en un éclair il saisit sa cheville des deux mains et le fit voler à terre avec violence. Mimmo tomba dans les graviers et s’écorcha les genoux ; Sabino l’attrapa par les cheveux et le traîna sur le chemin comme un sac, tandis que Mimmo essayait de se mettre debout, trébuchant, tombant, ses plaies à vif râpant le sol poussiéreux. Canosa le souleva, toujours par les cheveux, et de sa main droite lui flanqua une gifle foudroyante qui lui dévissa la tête.

Mimmo s’écroula, mit les mains à terre pour que son visage ne heurte pas les graviers ; Sabino ramena un genou vers sa poitrine et du pied lui écrasa la main. Mon ami lança un hurlement guttural, retira ses doigts et les serra dans son autre main. Il oscilla, berçant la douleur contre son cœur et pleurant en silence.

Sabino le regardait d’en haut, comme s’il était un insecte. Il enfonça à nouveau ses doigts dans la chevelure d’ange de Mimmo et tira fort en arrière.

« Gros tas de merde. Ma mère, tu ne dois même pas prononcer son nom. Ma mère, c’est une sainte. »

Des gouttes de salive giclaient sur le visage terrorisé de Mimmo. Puis Sabino tendit le bras et lui assena une autre gifle, du haut vers le bas.

Je ne pouvais qu’observer. Cosimo et Salvatore m’immobilisaient. Je sentais l’odeur métallique de leur sueur. Si Damiano était là, pensais-je, si seulement Damiano était là.

Il y eut un échange de signes et de regards, puis Salvatore se plaça derrière Mimmo. Sabino recula, comme pour l’étudier. D’un geste net et méthodique, il enroula entre ses doigts le bord inférieur du tee-shirt de Mimmo, jusque sous son menton. Le ventre blanchâtre et proéminent de mon ami était livré aux yeux de tous, telle une faute.

J’entendis le sifflement de la ceinture en cuir qui glissait dans les passants du short de Sabino. Canosa tendit la ceinture entre ses mains, produisant un double claquement.

Mimmo et moi regardions seulement la partie de football qui se déroulait sur une esplanade caillouteuse brûlée par le soleil – un terrain improvisé devant la villa de Potito Capece, deux tas de pierres en guise de poteaux, Sabino et Cosimo qui se passaient la balle et tiraient dans le but sans filet que Salvatore défendait en se balançant sur ses jambes. Puis le ballon qui s’élève et survole le mur d’enceinte de la villa, Sabino qui ordonne à Mimmo d’aller le récupérer. Mimmo qui obéit parce que l’ordre vient de Sabino Canosa, quinze ans, le corps solide et trapu d’un taureau, mais également parce qu’il y trouve son compte : ce n’est pas n’importe quel ballon. C’est une relique. Mimmo avait l’opportunité de le toucher, le ballon qu’un Omar Sívori, incongru comme une apparition, avait dédicacé à Sabino quelques jours plus tôt, surgissant du néant dans notre village perdu du Gargano.

Sabino brandit sa ceinture et donna un premier coup sur le sol, tel un dompteur. D’instinct, Mimmo plissa les yeux. Sabino replia la ceinture sur elle-même.

« Fouette-le, ce porc ! » exulta Cosimo dans mon dos, alors je trouvai une faille dans sa prise. Je courus vers Mimmo, mais Cosimo m’attrapa le poignet, me fit tourner et me colla son poing au creux de l’estomac.

Je tombai à genoux. L’oxygène abandonna mes poumons.

Je sentis les mains de Cosimo qui me soulevaient de terre, ses bras serrer à nouveau mes épaules. J’essayais d’aspirer de l’air – en vain. Je vis le bras de Sabino fléchir, la ceinture s’abaisser et heurter le ventre nu de Mimmo. Il émit un cri rauque qui irrita sa gorge, mais ce n’était que le début. Les yeux écarquillés et pleins de haine, Sabino entama une flagellation effrénée. Les coups, de plus en plus violents, déferlaient à intervalles toujours plus rapprochés. Les cris de Mimmo retentissaient atroces, archaïques. À mesure qu’il suait, Sabino, qu’il perdait de l’énergie, il gagnait en force. Son corps et son bras ne faisaient qu’un, il frappait avec une fluidité forcenée. Ce n’était plus un jeu sadique ; même plus une punition, ni l’exercice grisant d’une violence gratuite. C’était au-delà de la haine. Si quelqu’un n’était pas intervenu, Sabino ne se serait pas arrêté.

Soudain un filet d’air trouva le chemin de mes poumons ; je sentis mon estomac se contracter et se relâcher vivement, un flot acide jaillit de ma gorge.

Cosimo me poussa écœuré, mais là où certains cèdent au dégoût, Sabino voyait des opportunités. Il jeta sa ceinture, arracha Mimmo à la prise de Salvatore et le traîna par les cheveux jusqu’à la flaque formée par mes sucs gastriques. Il me regarda : la cicatrice qui zébrait sa joue gauche, juste sous son œil, luisait de sueur.

« Lèche » dit-il en s’adressant à Mimmo. Mais c’était moi qu’il regardait. Il avait une exaltation nouvelle dans les yeux.

Il pressa sa main contre la nuque de Mimmo et essaya d’approcher son visage du vomi, mais Mimmo tendait les muscles de son cou, il résistait vaillamment.

« Lèche ! » ordonna Sabino, et il lui donna un coup de pied dans le flanc.

On entendit un hurlement ; Canosa se tourna vers les ruelles. Avant de le laisser s’éloigner, il cracha au visage de Mimmo.

Don Gerardo courait dans notre direction en tenant sa soutane entre ses doigts, et quand il nous rejoignit, il battit l’air de ses jambes maigres pour disperser Sabino et ses amis comme s’ils étaient des chiens errants. Ils s’en allèrent tous les trois en riant et gesticulant.

« Misérables » murmura le curé en essuyant avec un mouchoir la sueur sur son front. « Tout va bien ? »

J’acquiesçai, en m’efforçant de ne pas croiser son regard. Je ne voulais pas, je ne pouvais pas être obligé de le remercier.

Je m’approchai de Mimmo. Il pleurait tout bas, marmonnait des paroles privées de sens – son tee-shirt enroulé sous son cou, son ventre rougi par les coups. Avec ma main, j’ôtai la salive de Sabino de son visage. Secoué de sanglots, Mimmo glissa mécaniquement ses doigts dans la poche de son short, et en extirpa un petit flacon en plastique. Il contenait de l’eau bénite ; un cadeau de sa mère pour son douzième anniversaire ; Mimmo ne s’en séparait jamais. Il voulait juste s’assurer qu’il était encore là, car il le remit aussitôt dans sa poche et commença à se diriger vers les ruelles du village, les yeux noyés de larmes.

Je lui pris le bras avec douceur et Mimmo s’arrêta. Je déroulai son tee-shirt, lentement, et couvris son ventre.

Nous quittâmes l’esplanade tandis que don Gerardo, immobile et muet, nous contenait dans son regard.

Published October 5, 2018
Forthcoming from Editions Denoël
© Editions Denoël 2018

From El verano muere joven

Written in Italian by Mirko Sabatino


Translated into Spanish by Juan Ramón Azaola

PRÓLOGO

Cuando estás solo las cosas te suceden únicamente a ti.

En teoría esta ley también debería valer para la felicidad, pero no se adapta a ella por culpa de esa palabra –solo– en torno a la cual la felicidad, por más que la coloques, tires de ella, la remetas, siempre deja arrugas.

Tenía doce años y medio cuando empecé a estar solo, y desde entonces no he dejado de estarlo. Se ha convertido en una actividad, más que en una condición. Así que cuando supe que la iban a sacar, volví a mi pueblo natal del mismo modo que, unos cuantos años antes, me había ido.

Solo.

Contemplo a los dos buzos mientras se preparan para la inmersión. Uno de ellos, a pesar de su arrogante prestancia física, tiene unas hebras grises que le jaspean las sienes; el otro, un rubio joven y delgado, tiene una mirada sonriente, unos ojos aún dispuestos al estupor.

Para el buzo de las hebras grises en las sienes simplemente es trabajo, otro trabajo más, pero para el más joven debe de tratarse de lo que es, en su absurda evidencia: una cosechadora sepultada bajo las aguas del Adriático desde los años sesenta.

Sucedió en el verano de 1963. Teníamos doce años, y éramos tan pequeños, aquel verano, que nuestros cuerpos no iban más allá de la camiseta y de los pantalones cortos que vestíamos.

Ese año los Beatles cruzaron el umbral de Abbey Road Studios y trece horas después entregaron al mundo su primer LP, el papa Juan XXIII moría después de casi cinco años de pontificado y tres días de agonía, Martin Luther King anunció a Estados Unidos que tenía un sueño, John Fitzgerald Kennedy perdió el cargo de presidente y la vida a bordo de una limusina, un desprendimiento provocó una inundación que borró de Italia a Lungarone y a sus habitantes. Pero todo esto sucedía en los periódicos, en la radio y, para los pocos que la tenían, en la televisión: lo que de verdad acontecía en el mundo, para nosotros, eran las callejuelas de nuestro pueblo.

Una plaza, una iglesia, una tienda de ultramarinos, una carnicería, un bar, una panadería, una escuela de primaria, una escuela de secundaria, un quiosco, un consultorio médico, una clínica veterinaria, un comercio de ropa y calzado baratos, las casas blancas y bajas.

Y las callejuelas.

Las callejuelas donde, en las tardes soñolientas, las madres llamaban a los hijos con voces lentas y monótonas, y las viejas se sentaban cuando anochecía, en sillas que colocaban en el umbral de sus casas, y allí se abanicaban perezosamente mientras sus maridos paseaban con las manos cruzadas tras la espalda, obstinada, obsoletamente elegantes con su único traje, los rostros serios y curtidos por el sol.

Tal vez los acontecimientos que marcaron 1963 no nos bastaron, o no nos parecieron lo suficientemente reales. Tal vez fue por eso por lo que decidimos aportar nuestra pequeña y silenciosa contribución a la historia.

Aquel año estábamos Mimmo, Damiano y yo. Sobre todo, nosotros.

1

Fue el dolor lo que le hizo perder la cabeza, mientras estaba todavía a horcajadas sobre la verja, con las manos de Sabino Canosa apretándole, desde abajo, el muslo desnudo contra el metal ardiente del sol de mediodía. Se estaba divirtiendo, Canosa; aflojaba la presa, dejando que la piel de la pierna de Mimmo se despegara del metal, después volvía a apretar, aumentando gradualmente la intensidad y la duración de la presión.

Hasta que el calor alcanzó el corazón de la carne de Mimmo, y mi amigo perdió el control, la voluntad. La lengua se le desató. Dijo aquellas palabras, y ya no habría marcha atrás.

–¡Déjame, hijo de puta!

Sabino dejó de reír como a veces deja de llover en verano: de golpe. Dejó que Mimmo pasase la otra pierna a esta parte de la verja; luego lo agarró bruscamente por el tobillo con ambas manos y lo derribó con un violento tirón. Mimmo se estampó sobre la gravilla y se raspó las rodillas; Sabino lo agarró por el cabello y lo arrastró sobre los guijarros como un saco, mientras Mimmo intentaba ponerse de pie, tropezando y cayendo y rozándose las heridas en carne viva contra el suelo polvoriento. Sin dejar de sujetarlo por el cabello, Canosa lo levantó en vilo y le propinó una violentísima bofetada que hizo que la cabeza le girara sobre el cuello.

Mimmo se desplomó, puso las manos en el suelo para no golpearse la cara contra la grava; Sabino levantó la rodilla hasta el pecho y le aplastó con el pie los dedos de la mano. Mi amigo dejó escapar un grito gutural, retiró la mano y se la protegió con la otra. Se balanceaba adelante y atrás, acunándose el dolor contra el pecho, lloriqueando en silencio.

Sabino lo miraba desde arriba, como si fuese un insecto. Hundió los dedos en los angelicales rizos de Mimmo y tiró con fuerza hacia atrás.

–Gordo de mierda. A mi madre ni la nombres. Mi madre es una santa.

Perdigones de saliva rociaban el rostro aterrorizado de Mimmo. Luego Sabino echó el brazo hacia atrás y le asestó otro tortazo, de arriba abajo.

Yo sólo podía mirar. Cosimo y Salvatore estaban detrás de mí y me tenían inmovilizado. Sentía el olor metálico de su sudor. Si estuviese Damiano, pensaba, si al menos estuviese Damiano.

Hubo un intercambio de gestos y de miradas, y luego Salvatore se puso detrás de Mimmo. Sabino retrocedió, como para estudiar la situación. Con gesto pulcro y metódico, enrolló el borde inferior de la camiseta de Mimmo hasta su barbilla. La tripa blanquecina y prominente de mi amigo quedó a la vista de todos, como una culpa.

Oí el siseo del cinturón de cuero al deslizarse por las trabillas de los pantalones de Sabino. Canosa tensó el cinturón entre sus manos, produciendo un doble chasquido.

Mimmo y yo solamente estábamos viendo el partido que tenía lugar en un terreno reseco por el sol: un campo de fútbol improvisado en la explanada que había delante de la villa de Potito Capece, con dos montoncitos de piedras como postes; Sabino y Cosimo se pasaban la pelota y la chutaban a la portería sin redes, que Salvatore defendía dando saltitos. De pronto el balón se encabrita y rebasa la tapia de la villa, Sabino ordena a Mimmo que lo recupere. Mimmo obedece porque quien se lo pide es Sabino Canosa, de quince años y con el cuerpo robusto y duro de un toro, pero también porque la cosa tiene su provecho: ése no es un balón cualquiera. Es una reliquia. Mimmo tendría la oportunidad de tocarlo: el balón en el que Omar Sívori, incongruente como una aparición, había firmado un autógrafo a Sabino pocos días antes, al materializarse desde la nada en nuestro pueblo perdido del Gargano.

Sabino levantó el cinturón en el aire y pegó un primer golpe en el suelo, como un domador. Mimmo cerró los ojos instintivamente. Sabino dobló en dos el cinturón.

–¡Azota a ese cerdo! –se exaltó Cosimo a mi espalda, mientras yo encontraba el modo de zafarme de él y salía corriendo hacia Mimmo; pero Cosimo me agarró por la muñeca, me hizo volver y me propinó un puñetazo en la boca del estómago.

Caí de rodillas. El oxígeno abandonó mis pulmones.

Sentí que las manos de Cosimo me levantaban del suelo, que sus brazos me sujetaban de nuevo por los hombros. Yo intentaba aspirar aire, pero en vano. Vi que el brazo de Sabino se flexionaba, que el cinturón caía y restallaba en el vientre desnudo de Mimmo. Mimmo emitió un grito ronco que le desgarró la garganta, pero aquello era sólo el principio. Con ojos desorbitados y llenos de odio, Sabino inició una furiosa flagelación. Los golpes, cada vez más violentos, caían a intervalos cada vez más seguidos. Los alaridos de Mimmo se alzaban atroces, arcaicos. Cuanto más sudaba Sabino, cuanta más energía gastaba, más parecía crecer su fuerza. Su cuerpo y su brazo formaban un todo, y golpeaba con enloquecida agilidad. Ya no era un juego sádico; ni siquiera un castigo o un embriagador ejercicio de violencia gratuita. Aquello iba más allá del odio. De no haber intervenido nadie, Sabino habría sido incapaz de detenerse.

De pronto, un hilo de aire se abrió paso hasta mis pulmones; sentí el estómago contraerse y relajarse violentamente, y un chorro ácido me brotó de la garganta.

Cosimo me apartó de él con desagrado, pero allí donde otros cedían al asco Sabino veía oportunidades. Arrojó al suelo el cinturón, arrancó a Mimmo de los brazos de Salvatore y lo arrastró agarrándole del pelo hasta el charco formado por mis jugos gástricos. Me miró: la cicatriz que tenía en el pómulo izquierdo, justo bajo el ojo, le brillaba con el sudor.

–¡Lámelo! –dijo, dirigiéndose a Mimmo. Pero me miraba a mí. Había una excitación nueva en sus ojos.

Apretó su mano contra la nuca de Mimmo y trató de hundirle la cara en el vómito, pero Mimmo tensaba los músculos del cuello, resistía enérgicamente.

–¡Lámelo! –ordenó Sabino, y le dio una fuerte patada en el costado.

Se oyó un grito; Canosa se volvió hacia las callejuelas. Antes de soltarlo, escupió a Mimmo en la cara.

Don Gerardo corría en nuestra dirección sujetándose la sotana con las manos y, cuando nos alcanzó, comenzó a dar patadas al aire con sus piernecitas, dispersando a Sabino y sus amigos como si fueran perros. Los tres se fueron riendo y haciendo muecas.

–Desgraciados… –murmuró el párroco mientras se secaba el sudor de la frente con el pañuelo–. ¿Va todo bien?

Asentí, tratando de no encontrarme con su mirada. No quería, no podía verme obligado a darle las gracias.

Me acerqué a Mimmo. Lloraba de un modo apenas perceptible, mascullaba palabras sin sentido, con la camiseta enrollada hasta el cuello, la tripa enrojecida por los golpes. Con la mano, le limpié la saliva de Sabino de la cara. Estremecido por los sollozos, Mimmo introdujo mecánicamente sus dedos en el bolsillo de los pantalones y sacó una botellita de plástico. Contenía agua bendita; se la había regalado su madre por su duodécimo cumpleaños; Mimmo nunca se separaba de ella. Solamente quería asegurarse de que estuviera todavía allí, porque inmediatamente después se la volvió a meter en el bolsillo y se encaminó hacia las callejas, con la mirada anegada en lágrimas.

Lo agarré con suavidad por el brazo y Mimmo se detuvo. Le desenrollé la camiseta, despacio, y le cubrí la tripa.

Nos alejamos de la explanada mientras don Gerardo nos contemplaba, inmóvil y mudo.

Published October 5, 2018
Forthcoming from Editorial Sexto Piso
© Editorial Sexto Piso 2018


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