L’isola del giorno dopo

Written in Italian by Tommaso Soldini

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Quando David Foster Wallace giunse là dove stavano i Nobel per la letteratura mancati erano in pochi a conoscerlo. E a dire la verità gli parve che non fossero molto interessati a capire chi fosse. Qualcuno gli disse persino di lasciar subito perdere, che sì, bravo, era stato un grande scrittore, uno di quelli che avrebbe meritato di più, d’accordo, aveva avuto ragione: i premi letterari sono una mafia, adesso ne aveva le prove. Di letteratura qui però non si parla.

L’ufficio dell’accettazione si trovava in una cascina stile casolare nella campagna senese con piscina, grilli, carne chianina e tutto. Una signorina con gli occhi viola e la lunga zazzera di seta lo accolse e gli diede le informazioni fondamentali.

– Buongiorno David, – gli disse in tono Madonna versione Beato Angelico. – Benvenuto nell’isola dei Nobel mancati, sezione letteratura. La prego di non interrompere, perché quello che sto per dire è tutto ciò che le sarà dato sapere. – Lui annuì, spaventato come uno che ha appena visto il materialismo sbriciolarsi a colpi di Excalibur. Tese i muscoli della fronte per allargare il campo visivo e si chiese come mai l’uomo pensa che guardando meglio sente di più.

– Oggi riceverà le chiavi del suo alloggio, che si trova nel villaggio a due chilometri da qui. Le regole di base sono semplici e facili da accettare: lei è dotato di un corpo che si comporta come il suo involucro precedente, ma non ha bisogni fondamentali. Mangiare, bere, fare l’amore sono attività possibili ma non necessarie. Quanto al sonno, dipende da lei. L’isola è determinata da un clima di costante serenità. Lei vivrà un eterno giorno tiepido e sereno, non ci sono notte né intemperie; perciò è solo il ciclo della coscienza che prevede che si possa sentire il desiderio di dormire, e allora ne potrà approfittare. Domande?

– Rgf, – sgrogugliò David mentre allungava la mano per prendere la cartina dell’isola su cui era segnata con una croce la casa che gli era stata assegnata.

– Bene, allora le auguro buona permanenza. Se dovesse avere esigenze di qualunque tipo, non esiti a rivolgersi a me. Arrivederci.

– Arrivederci, – rispose lui con la sensazione in corpo di uno che alla domanda lascia o raddoppia abbia risposto: bene, grazie, e lei.

 

Mentre percorreva l’unterdenlinden che divideva il casolare dal villaggio, David scoprì che aveva detto goodbye al mondo con la bandana in testa e con in mano l’epistolario del più sottovalutato intellettuale veneziano del Settecento. Si ricordò che gli ultimi pensieri che quella sua testa depressa aveva formulato prima di giocare al settimo sigillo nel garage erano andati appunto al colore della fascia e al libro di viaggio. Non sapeva dove sarebbe finito e se ci fosse stato qualcosa dopo il distacco dal corpo, tuttavia, perso per perso, si era infilato il volume nella tasca della giacca. Le probabilità di incontrare quell’uomo la cui mente era un crogiuolo di tormenti restavano basse, ma fallire, comunque, non avrebbe fatto più male di un cappio intorno al collo.

I suoi passi erano lenti e calibrati, scrocchiavano sullo sterrato. Ovviamente gli era andata male, pensò proprio mentre vedeva una volpe zigzagare fra i tronchi. Nel Settecento il padre degli stermini di massa non era ancora salito sul bilzo balzo della storia, non aveva ancora centrifugato la propria coscienza trasformando i proventi della dinamite nella metonimia più ambita da tutti gli scrittori, gli scienziati, i presidenti neri degli Stati Uniti d’America, i papi cattocomunisti, gli israelo-palestinesi che sapevano distinguere tra sciiti, sunniti, aschenaziti, sefarditi, sionisti. La volpe si accorse della sua presenza e, intimorita come un cecchino allo zoo, si fermò a guardarlo. Gli venne il pensiero assurdo che fosse Gasparo Gozzi, presente lì in quella forma, ma non c’era e non ci sarebbe potuto essere, essendo vissuto ben prima di Alfred Nobel o No-bel, come amavano chiamarlo quelli che avevano un’infarinatura di idiotismo lombardo. 

Il volume si rivelò non solo inutile per individuare il suo autore, ma, con grande dispiacere di DFW, appariva indigesto a tutti quelli a cui lo mostrava. I libri non erano una buona cosa, lì. L’eternità era già abbastanza difficile tra tiltose partite di flipper, pranzi di Babette, tornei di indiaca e di backgammon. 

David scoprì che gli abitanti dell’isola, se tagliavano corto quando lui li interrogava sulle loro opere, quasi battevano le mani dal piacere quando sentivano l’idea di una nuova attività finalizzata al diporto. Il più ardito inventore di enigmi e ludopatologie era Italo Calvino, di fronte al quale tutti facevano grande vento col cappello, neanche fosse il balivo Gessler, da quando aveva organizzato una pericolosissima sessione di mosca cieca sugli alberi. Ancora oggi la si ricordava per le giunture ammaccate, i rami negli occhi e le lussazioni più o meno gravi di Robert Walser, Virginia Woolf e Franz Kafka.

David Foster Wallace aveva mille domande e un’eccitazione che aveva paura di spiegare anche a sé stesso, perché un riconoscimento di questa levatura non se lo era mai sognato. Avrebbe voluto sapere, capire: chi decideva? Allora Dio c’era? E come mai tutti sembrava che parlassero la propria lingua eppure si capivano? 

 

Si aggirava, nei primi tempi dopo il suo arrivo, come un vu’ cumprà degli anni ’90 sulla riviera romagnola; rivolgeva la parola a tutti, ottenendo forse il due per cento del soddisfacimento. Uno di quelli che lo prese in disparte e gli parlò sottovoce fu Lev Tolstoj, che gli spiegò di essere stato tra i primi ad arrivare, quando la popolazione era praticamente solo europea e l’arrendevolezza quasi inesistente. I libri degli ospiti erano tutti in quell’edificio fatiscente laggiù, oltre il fiume, ormai ricoperto di edera e di sterpaglie. Se avesse voluto. Non doveva fare altro che aprirsi un varco col machete. Stesse accorto, però, il tasto era dolente, la letteratura più tabuosa del sesso tra i Karnowski. DFW lo ringraziò e, come un bambino che salta sotto la doccia fredda dopo una giornata senza ombrellone, raggiunse la villa rosa abbandonata.

L’entrata era ostacolata da una vegetazione mediterranea, di pruni e di sterpi attorcigliati, il prato circostante una selva appetibile solo per bisce dai nomi onomatopeici. Si procurò una vanga, un rastrello e delle cesoie negli uffici dell’amministrazione, passando dalla ragazza dagli occhi viola, di fronte alla quale riuscì solo a pronunciare le parole giardino, liberare. Quando si ritrovò con gli arnesi in mano e con la testa vuota, si diresse a passo hippy verso la germogliante impresa. Instancabile come l’aquila che divora il fegato di Prometeo ripulì tutta l’area intorno alla casa. Scoprì che un giardino giapponese o versaillese si celava sotto i colpi sempre più raffinati di un uomo che ad ogni recisione rivelava una predisposizione al lavoro manuale che non avrebbe mai assegnato a sé stesso.

Gli altri fu scrittori osservavano le sue gesta da lontano, persuasi che così come la Woolf aveva accettato l’idea della morte della letteratura trasformando il faro del golfo in una palestra di cyclette vista mare, anche Wallace avrebbe imboccato la via giusta.

Lui intanto procedeva con cura grammaticale, ammucchiava le ortiche da una parte; i rovi di more dall’altra; l’erba la disponeva in covoni, pronti per essere ritirati da Arthur Schnitzler, che si era dedicato alla pastorizia e in particolare alla produzione di formaggi a pasta molle dal vago sapore di strudel.

La dedizione che David insufflava nel proprio lavoro tranquillizzò tutti, che infatti lo invitavano alle cene nella locanda di Simone de Beauvoir, lo interrogavano sulle specie di piante che di giorno in giorno registrava sul proprio taccuino, lo coinvolgevano nelle partite di pétanque o di ramino. 

Vi fu un primo indizio che qualcosa non stava procedendo secondo i piani quando, una volta raggiunta la piuccheperfetta sistemazione del parco intorno alla biblioteca, David, invece di installarsi nel gabbiotto del giardiniere, si presentò al ricevimento per ottenere le chiavi. 

La signorina lo guardò da un’inclinazione di diciotto gradi, forse non si aspettava questa ostinazione, confermata dal fatto che DFW aveva sì accettato, da parte di Philip Roth, che si era da subito dedicato all’allevamento di animali da compagnia, due pastori tedeschi, ma li aveva addestrati con una disciplina così rigida che Natalia Ginzburg, da anni intenta ad applicare il metodo Montessori in agricoltura, aveva preso a testate la vetrata decorata della sua serra per germogli di soia libertari. Adesso lo seguivano ossequiosamente, appaiati come due putti di Rubens, capaci di attenderlo in posizione leoni di Venezia senza che lui avesse impartito alcun ordine. La signorina, mentre gli consegnava le chiavi, produsse una strana espressione delle labbra, quindi si limitò a dire quella grande è per la serratura esterna, l’altra apre e chiude tutte le porte interne.

 

David Foster Wallace girò la chiave e si godette il cigolio delle giunture incriccate. L’interno era meno malridotto dell’area verde, tuttavia le pareti erano scrostate, i pavimenti pericolanti, gli infissi delle finestre un canotto alla deriva. David si ripresentò al casolare da cartolina e chiese il materiale di carpenteria e di pittura. Ancora una volta le parole gli divenivano fonemi di fronte a quei due fari viola, cosa strana, pensò poi, dato che il sesso non sembrava scorrere nelle arterie dei residenti. Sistemò gli arnesi nell’androne e, dopo avere spalancato le finestre come Lorenzo in quella lettera da Ventimiglia, prese a pulire, sistemare, ritinteggiare le stanze. 

Indossava una tuta blu tipo salopette, con i vari attrezzi disposti nelle tasche laterali, la solita bandana madida di sudore e due sneakers Roger Federer dalle quali non si separava neanche morto. Aggiustava ogni scrostatura e la riportava all’antico splendore, seguito sempre dai cani, che aveva battezzato Jonathan e Franzen, ai quali poi, quando la stanchezza veniva come una liberazione, concedeva una lunga passeggiata che costeggiava la riva del mare e si spingeva fino alla cima della collina sul lato nord dell’isola, e precisamente nel punto in cui prendeva vita il fiume che si era abituato a chiamare Verbo.

 

Mentre Jonathan e Franzen giocavano alla dominazione e perlustravano le rocce e le tane dei ragni, David sedeva sul ramo basso di un ontano cresciuto storto. Estraeva il taccuino dalla tasca centrale della tuta e ripassava i lavori della giornata. Decapare, cesellare, fresare, svasare; sottolineava i verbi tecnici, le parole che così di rado entrano in un romanzo e che invece spesso avevano suoni ben più interessanti dei termini che si usano per l’universo emozionale. Poi si alzava e raggiungeva il punto panoramico, il mare intorno all’isola poteva essere infinito, oppure, a un certo punto, se si fosse trumanshowato e avesse cercato il limite, avrebbe cozzato contro un muro di cartone su cui erano disegnate acqua e nubi lievi. Non lo sapeva, e per il momento non rappresentava un problema. Il villaggio dei Nobel mancati, dall’alto, rivelava una topografia razionale: gli edifici dedicati allo svago così come gli alloggi formavano un perfetto teatro romano, disturbato però da un reticolo di viali e strade che costeggiava le grandi aiuole vegetali. Poco discosto dal paese vi era un’ulteriore isola, la biblioteca, circondata da un ramo concentrico del fiume Verbo. Se ne era accorto durante le operazioni di giardinaggio, quando aveva scoperto, al di là dei cespugli e dell’erba selvaggia, i tre piccoli ponti che lo attraversavano nei punti da cui si potevano raggiungere il villaggio, il faro di Virginia e il colle. All’inizio li avrebbe voluti chiamare come i ponti di Venezia, ma poi capì che, se il fiume era il Verbo, allora dovevano essere Parola, Frase, Periodo. 

Il regno era bello, eppure ancora non riusciva a capacitarsi della fredda malinconia degli altri abitanti, che dovevano per forza sapere e sentire cose che lui non riusciva a indovinare. Era forse per una di queste ragioni che, nel momento in cui aveva smesso di occuparsi del giardino e si era tuffato nel gomitolo di stanze, i Nobel mancati si erano raffreddati nei suoi confronti, riducendo al minimo gli scambi verbali con lui e coi suoi due cani da compagnia. Persino Tolstoj lo evitava. DFW ne soffriva, tuttavia si era portato dal mondo dei vivi due giganteschi calli sui piedi, uno alla destra dell’alluce sinistro, l’altro alla sinistra dell’alluce destro. Incarnavano, così almeno la vedeva lui, la solitudine dei numeri pari. Perciò si limitò a continuare con il suo percorso di avvicinamento ai libri, cauto e dilatato, perché forse davvero la letteratura non era cosa buona, ma avrebbero dovuto convincerlo. 

 

Ogni tanto, da una delle finestre della biblioteca, mentre riparava le gelosie o ritinteggiava una scansia, scorgeva la testa di un Nobel mancato, che lo scrutava furtivo. Aspettò che la cosa divenisse un’abitudine, quindi decise di mettere piede nel pub di James Joyce. Entrava e si appostava al bancone, gli altri lo salutavano appena, poi ricominciavano a parlare dell’imminente torneo di tiro con l’arco che Milan Kundera stava organizzando nella piazza del villaggio. D’altro canto lui aveva capito che quello era il momento di tacere, di osservare, perché quel loro ostentato distacco da ciò che erano stati non poteva essersi risolto così, in un’eternità di rifiuto della parola scritta per essere letta. La birra era buona, l’idea del tiro con l’arco anche. Si procurò il materiale e iniziò la procedura di impossessamento dei rudimenti dell’arcierologia. Se poi gli altri, bene. 

Jonathan e Franzen si rivelarono degli ottimi cani da riporto, sempre in lotta tra loro per arrivare primi sul dardo scagliato. Perciò, quando gli pareva di aver trafficato abbastanza in biblioteca, approfittando del sole che non tramonta, David posizionava un bersaglio davanti all’edificio e cercava di armonizzare mente e braccio. 

Non mancava molto alla fine della ristrutturazione. Il torneo di tiro con l’arco capitava in un buon momento. Avrebbe messo del tempo tra sé e il ritorno alla lettura. Avrebbe cercato di capire come mai quel desiderio di letteratura non si stingeva in lui. 

 

Alla fine una delegazione di Nobel mancati superò il ponte sul Verbo e gli si parò davanti. C’erano Elsa Morante, Anne Frank e Roberto Bolaño. David li riconobbe subito e sentì il potente desiderio di sedersi sul prato e liberare le domande. Ma si trattenne. Strinse il nodo della bandana e si ricordò che il tennis era come i dialoghi, l’unione di strategia e violenza. 

Fu Elsa Morante a parlare:

– David, vedo che ti stai allenando.

Lui si limitò ad annuire, la frase non presupponeva una domanda. Lo guardarono contrariati. Il servizio aveva schioccato contro la rete; un lungo palleggio precedette la seconda messa in campo, una battuta liftata, a uscire, diretta sul rovescio. 

– Ti stai allenando perché vuoi farti invitare alla gara di tiro con l’arco? – Questa volta David percepì il mento cadere. Dovette muoversi di lato e limitarsi a un top spin, lento ma pensato per finire a pochi centimetri dalla linea di fondo:

– Mi fa piacere che vi poniate la domanda.

Fu Anne Frank a rispondere, il suo sguardo penetrante e marrone lo scavava; sfoderò un colpo incrociato che andò a flirtare con l’incrocio delle righe:

– Ti teniamo d’occhio, te ne sei accorto. – Aspettò che la sua testa annuisse meccanicamente, – Perciò dimmi, vuoi partecipare?

– Dipende da voi. – David si decise a chiamarli a rete, alzò la racchetta, pronto per un’accelerazione bimane lungolinea, invece produsse una palla corta, cercando di sfruttare l’effetto sorpresa e la scarsa rimbalzabilità dell’erba londinese.

– Questo è chiaro. – Anne Frank correva come una teenager in quella poesia di Camillo Sbarbaro; raggiunse la palla e sfoderò una controsmorzata incrociata. – È una legge sociale di base, tu sei solo, noi no. Chiamala volontà di potenza, dittatura della maggioranza, non cambierai le cose.

David aveva già iniziato la corsa verso la rete – è infatti proprio dei caratteri umili seguire la smorzata nell’eventualità che l’avversario sia rapido e intuitivo -, quando si accorse che la palla era indirizzata dall’altra parte del campo però ebbe paura: le gambe c’erano, la testa invece era dubbiosa come quella di un prete innamorato. Si decise per un pallonetto difensivo.

– Diciamo che se foste aperti a includermi, allora sì, mi piacerebbe; se invece foste venuti solo per umiliare il mio eventuale desiderio di vita comunitaria, ecco, mi vedrei costretto a dire che mi stavo semplicemente divertendo da solo, approfittando del torneo per coronare un sogno che non avevo mai.

– Ti fa onore, non c’è di che – riprese Elsa Morante, non senza essersi passata una mano tra i capelli a caschetto, – so che ti senti un pesce con giusto l’acqua per respirare, ma vorremmo dirti che non è così.

Roberto Bolaño fece allora un passo avanti, si grattò il mento acuto, lasciò rimbalzare la palla che la Morante aveva controlobbato. Si apprestò allo smash decisivo, David vagava a metà campo, senza nemmeno la speranza che l’avversario sbagliasse.

– In realtà lo sai, o è ora che tu te ne renda conto. Quello che stai facendo non ci piace, ma non significa che sia sbagliato. Ecco, l’ho detto. Se vuoi partecipare, a noi non darà fastidio. Se vuoi continuare a lavorare in biblioteca, ce ne faremo una ragione. Avremmo preferito che tu ti adeguassi alle regole non scritte di quest’isola, che lasciassi crescere in te quell’utile senso di appagamento che ti dava il lavoro manuale, e che semmai ti limitassi a combattere il vuoto con i nostri stessi giochi. Ma tu no. – Bolaño passò il peso dal piede destro a quello sinistro. – Tu continui a domandarti cose, perseveri nel credere che ci sia un senso, magari solo che il senso sia l’assenza di senso, come ha scritto quel magrebino che sarà certo nell’isola dei Nobel meritati. – Fermò la reazione di Wallace con la mano. – Se c’è. Non ho detto che c’è. 

– Ha senso, – annuì David con gli occhi alti, a immaginare che ci fossero sia l’isola dei Nobel meritati sia quella dei Nobel sprecati. Aveva perso il punto, lo smash si era rivelato alto e imprendibile.

Bolaño soffiò forte dal naso, quindi continuò. – Non ci sono risposte qui. Chi è arrivato per primo le ha tentate tutte, ha letto i libri, ha interrogato la signorina dell’amministrazione, e invece è la condizione dell’isola: non ci sono risposte. Quello che stai facendo è tempo sprecato. Ti consiglio di iscriverti al torneo e di trovarti qualcosa da fare come tutti noi.

– Il torneo lo faccio di sicuro. Per l’altra cosa, vediamo. 

– È un consiglio sincero, – intervenne Anne Frank, che non aveva mai smesso di guardarlo come si spulcia una bibliografia critica per vedere se c’è il tuo nome.

– D’accordo, ci penserò su. – Mise a posto la bandana sudaticcia, quindi con un gesto delle dita richiamò Jonathan e Franzen. 

 

Il torneo di tiro con l’arco si svolse nel giardino della biblioteca. David Foster Wallace arrivò in semifinale, ma dovette soccombere di fronte alle traiettorie paraboliche di Italo Calvino, che aveva fatto in modo che le sue frecce fendessero l’aria con la leggiadria di una libellula. Ma anche lui dovette rinunciare allo scettro di Robin Hood, data la spregiudicata precisione di Jorge Luis Borges. I suoi movimenti erano gatteschi, aironosi. Nella gara del bersaglio mobile, poi, era stato un piacere guardarlo. David si era sentito un fratello Vanzina davanti ad Andrej Rublëv, e aveva capito che il postmoderno mescolava ma non mutava i valori in campo.

 

La vita, poi, riprese il suo corso. I Nobel mancati si sparsero sull’isola, ognuno nei propri alloggi, ognuno dedito alle proprie attività. Wallace spazzolò i libri con cura e constatò che l’ordine col quale erano stati sistemati rifletteva quello d’approdo. I suoi volumi erano dunque tra gli ultimi arrivati. Dopo aver dedicato qualche minuto alla perlustrazione dei propri titoli, capì che i lavori di manutenzione non lo avrebbero appagato davvero, c’era qualcosa che poteva ancora essere tentato, qualcosa che forse, magari. 

Dopo il pub, il torneo di freccette o quello di flipper, David Foster Wallace rientrava nella sala grande della biblioteca, nella quale aveva spostato la moganosa scrivania dell’entrata. Prendeva un libro da uno degli scaffali, si appostava con i piedi nel cassetto di destra, leggeva. Una notte, forse per la stanchezza degli occhi, forse perché il passaggio del romanzo di Dürrenmatt gli sembrava musicale nonostante il tedesco, prese a leggere ad alta voce. Fu allora che il commissario Matthäi matta-tutti prese vita davanti a lui. Era seduto al bancone della sua pompa di benzina sulla strada che dal Canton Grigioni conduce a Zurigo. Stringeva nella mano un bicchierino di acquavite e lo osservava come si osserva un fantasma che ha appena cantato il Salmo svizzero. 

– Chi sei? – gli disse senza muovere un muscolo di quel volto perennemente in attesa. – Cosa vuoi?

– Io sono David, – rispose lui. – Tu sei il commissario Matthäi?

– Non sono più commissario, adesso gestisco questa pompa di benzina. David hai detto? Speravo che fossi Friedrich.

– Mi dispiace, no. Ma è qui, sull’isola. Devo dirgli qualcosa?

– No. Dirò una cosa a te. Ti ricordi quando ho promesso alla madre di Gritli che avrei catturato il suo assassino? 

– Sì, certo, come dimenticarlo?

– Ecco. In quel momento ho sentito che stavo andando al di là delle mie forze, e quando ho iniziato a sprecare la mia vita, per la prima volta ha avuto un senso pieno. Non so se mi capisci.

– Non sono sicuro.

– Tienilo a mente, – trangugiò il liquido biancastro, – non si sa mai.

 

David lo vide scomparire così come si era materializzato, con il bancone e tutto. Rimase fermo attonito, imberciallato. Non sapeva se proseguire, quando la finestra aperta diede un colpo, come se una folata di vento l’avesse fatta sbattere. Anche Jonathan e Franzen si spaventarono, perché sull’isola il vento non c’era mai stato. Quando uscirono dalla biblioteca, una grande nube nera oscurava il sole. 

Era, era bellissima. Andò subito in cima alla collina, alla fonte del Verbo, per vederla meglio, per guardare l’ombra sul villaggio, e i Nobel mancati che si muovevano per la prima volta quasi correndo, indicando il cielo.

Ci misero un po’ a capire che l’isola stava cambiando perché David Foster Wallace aveva ripreso a interrogare i personaggi dei romanzi. Li chiamava leggendo i loro brani ad alta voce, ed essi si presentavano, si raccontavano, chiedevano di lui e della sua vita.

La biblioteca ogni notte prendeva vita, e le sue stanze potevano essere un salotto nobile di San Pietroburgo e subito dopo la casa piccolo borghese di un impiegato; facevano irruzione cavalli e motociclette, donne bellissime e sceriffi con la pistola sempre carica. E ad ogni incontro che si realizzava in quelle stanze, qualcosa mutava là fuori. Il vento, la pioggia, le onde. Qualcuno aveva visto Virginia Woolf spalancare le finestre del faro e gettare le cyclette nel mare. Poi si era seduta su uno scoglio, contro il quale si frangevano le ondate più violente. Calvino e Borges si erano procurati gli attrezzi di carpenteria e avevano iniziato ad abbattere alberi, a piallare, forse volevano costruire una barca.

Fu allora che Elsa Morante, Anne Frank e Roberto Bolaño si presentarono in biblioteca, paonazzi come un fumatore dopo duecento scalini. – Che cosa hai fatto?, gridarono spalancando la porta e trovandosi nel mezzo di un deserto messicano. 

David li guardò e si portò un dito alle labbra. Non adesso, pensò, e ricominciò a parlare con Benno von Arcimboldi. Lui era seduto sul cofano di un’automobile americana malconcia, beveva una birra e diceva pensaci, la letteratura ti spiega che il bello non è né bello né ciò che piace; non è nelle cose e nemmeno negli occhi di chi guarda. È più semplice di così, dai, è facile come una frase nominale. Ma se non lo capisci da solo, quest’isola è ancora il posto giusto per te.

Published June 10, 2025
© Tommaso Soldini

Die Insel des folgenden Tags

Written in Italian by Tommaso Soldini


Translated into German by Ruth Gantert

Als David Foster Wallace am Ort der verpassten Nobelpreisträger ankam, kannten ihn nur wenige. Ja, es schien ihm geradezu so, als wollten sie gar nicht wissen, wer er sei. Einer sagte ihm sogar, er solle es gleich vergessen, er sei ein grosser Schriftsteller gewesen, na toll, einer von denen, die Besseres verdient hätten, aber klar doch, er hatte recht gehabt: Die Nobelpreise sind eine Mafia, jetzt hat er den Beweis dafür. Aber hier wird nicht über Literatur gesprochen.

Die Rezeption befand sich in einem Bauernhaus im Stil eines toskanischen Landsitzes mit Schwimmbad, Grill, Chianina-Fleisch und allem. Eine junge Frau mit violetten Augen und einer langen Seidenmähne empfing ihn und übermittelte ihm die wichtigsten Informationen. 

»Guten Tag, David«, sagte sie ihm im Ton einer Madonna à la Fra’ Angelico, »Willkommen auf der Insel der verpassten Nobelpreise, Abteilung Literatur. Bitte unterbrechen Sie mich nicht, denn was ich ihnen jetzt sage, ist alles, was Sie erfahren werden.«  Er nickte, erschrocken wie nur einer, vor dessen Augen gerade der Materialismus unter den Streichen eines Excalibur-Schwertes zerbröselt ist. Er spannte die Stirnmuskeln an, um sein Gesichtsfeld zu erweitern und fragte sich, wie der Mensch darauf kommt, dass, wer besser sähe, auch besser hörte.

»Heute werden Sie den Schlüssel zu Ihrer Bleibe bekommen, die sich im zwei Kilometer entfernten Dorf befindet. Die wichtigsten Regeln sind einfach und lassen sich leicht akzeptieren: Sie verfügen über einen Körper, der sich wie Ihre vorherige Hülle beträgt, aber keinerlei Grundbedürfnisse kennt. Essen, Trinken, Beischlaf sind möglich, aber nicht nötig. Was den Schlaf betrifft, so hängt es von Ihnen ab. Die Insel steht unter dem Einfluss eines beständigen Hochs. Sie werden einen immerwährenden, heiteren und handwarmen Tag erleben, es gibt weder Nacht noch Unwetter, deshalb erzeugt einzig der Kreislauf des Bewusstseins den Wunsch nach Schlaf, dem Sie dann nachgeben können. Noch Fragen?«

»Rgf«, gurgelte David und streckte die Hand aus, um die Karte der Insel in Empfang zu nehmen, auf der das ihm zugewiesene Haus mit einem Kreuz versehen war.

»Gut, dann wünsche ich Ihnen einen angenehmen Aufenthalt. Sollten Sie etwas brauchen, wenden Sie sich jederzeit an mich. Auf Wiedersehen.«

»Auf Wiedersehen«, antwortete er und kam sich dabei so vor wie jemand, der die Frage »aufgeben oder verdoppeln« mit »gut, danke und Ihnen« beantwortet hat.

 

Während er die Unterdenlinden entlangging, die das Landhaus vom Dorf trennten, entdeckte David, dass er der Welt in einem um die Stirn geknüpften Tuch und mit einer Briefsammlung des meistunterschätzten Intellektuellen des achtzehnten Jahrhunderts in der Hand goodbye gesagt hatte. Er erinnerte sich daran, dass die letzten Gedanken seines depressiven Kopfes, bevor er in der Garage Siebentes Siegel spielte, tatsächlich die Farbe des Stirnbands und das Buch für die Reise betrafen. Er wusste nicht, wohin es ihn am Ende verschlagen und ob auf die Abnahme des Körpers noch etwas folgen würde, und dennoch hatte er sich, nützt es nichts, so schadet es nichts, das Buch in die Jackentasche gesteckt. Die Wahrscheinlichkeit, jenen Mann mit dem Knäuel von Qualen im Geist anzutreffen war zwar gering, aber ihn zu verfehlen würde nicht schmerzhafter sein als ein Strick um den Hals.

Seine Schritte waren langsam und gemessen, sie knirschten auf dem Schotter. Für den anderen war es offensichtlich schlecht gelaufen, dachte er in dem Moment, als er einen Fuchs sah, der sich zwischen den Stämmen hindurchschlängelte. Im achtzehnten Jahrhundert war der Vater der Massenvernichtung noch nicht auf die Wippe der Geschichte gestiegen, er hatte sein Gewissen noch nicht geschleudert, indem er die Erträge des Dynamits in die Metonymie verwandelte, nach der sie alle am meisten strebten: Schriftsteller, Wissenschaftler, schwarze Präsidenten der Vereinigten Staaten Amerikas, katho-kommunistische Päpste, Israel-Palästinenser, die zwischen Schiiten, Sunniten, Aschkenasen, Sepharden und Zionisten unterscheiden konnten. Der Fuchs bemerkte seine Anwesenheit und hielt verschüchtert wie ein Scharfschütze im Zoo an, um ihn zu mustern. Es kam ihm der absurde Gedanke, es handle sich um Gasparo Gozzi, der sich in seiner Gestalt zeigte, aber der war nicht da und konnte es auch nicht sein, hatte er doch lange vor Alfred Nobel gelebt, oder No-bel, wie ihn diejenigen gerne nannten, die einiger Brocken lombardischer Spracheigentümlichkeit mächtig waren.

Das Buch erwies sich nicht nur als nutzlos, um seinen Autor ausfindig zu machen, sondern erschien zu DWF’s Leidwesen allen, denen er es zeigte, ungeniessbar. Die Bücher waren keine gute Sache da, wo er jetzt war. Die Ewigkeit war schon schwierig genug zwischen tiltösen Flipperpartien, Babettes Festen, Indiaca- und Backgammon-Turnieren.

David fand heraus, dass die Inselbewohner zwar jedes Mal kurz angebunden reagierten, wenn er sie nach ihren Werken fragte, dafür vor Vergnügen fast in die Hände klatschten, wenn sie von einer neuen Aktivität hörten, die der Zerstreuung diente. Der kühnste Erfinder von Rätseln und Spielgesüchten war Italo Calvino, vor dem alle mit dem Hut in der Luft wedelten, als wäre er mindestens der Landvogt Gessler, seit er eine höchst gefährliche Partie Blinde Kuh auf den Bäumen organisiert hatte. Man erinnerte sich noch heute daran wegen der aufgeschürften Gelenke, der Äste in den Augen und der mehr oder weniger schlimmen Verstauchungen von Robert Walser, Virginia Woolf und Franz Kafka.

David Foster Wallace hatte tausend Fragen und spürte eine Aufregung, die zu erklären – auch sich selbst – er fürchtete, denn eine Anerkennung dieses Kalibers hatte er sich nicht träumen lassen. Er hätte erfahren und verstehen wollen: Wer traf die Entscheidungen? Gab es also einen Gott? Und wie kam es, dass jeder in der eigenen Sprache zu sprechen schien und sich doch alle verstanden?

 

In der ersten Zeit nach seiner Ankunft irrte er umher wie ein Strassenverkäufer der 90er-Jahre an der Riviera der Romagna; er sprach alle an und erhielt vielleicht zwei Prozent befriedigende Antworten. Einer derjenigen, die ihn zur Seite nahmen und leise mit ihm sprachen, war Leo Tolstoi, der ihm erklärte, er selbst sei als einer der Ersten angekommen, als die Bevölkerung fast nur europäisch und die Unterwerfung unter die Regeln praktisch inexistent war. Die Bücher der Gäste befänden sich alle in jenem halb zerfallenen Gebäude dort unten, jenseits des Flusses, das von Efeu und Gestrüpp überwuchert war. Wenn er denn wolle. Er müsse nichts anderes tun, als sich mit der Machete einen Weg bahnen. Er solle jedoch aufpassen, sie anzufassen sei schmerzhaft, die Literatur tabubehafteter als der Sex bei den Karnovskis. DFW dankte ihm und kehrte wie ein Kind, das nach einem Tag ohne Sonnenschirm unter die kalte Dusche springt, in die verlassene Villa Rosa zurück.

Der Eingang wurde von einer mediterranen Vegetation erschwert, mit verschlungenen Pflaumenbäumen und Dornengestrüpp, die umliegende Wiese war einzig für Schlangen mit onomatopoetischen Namen verlockend. Er besorgte sich einen Spaten, einen Rechen und Gartenscheren im Verwaltungsbüro, über die junge Frau mit den violetten Augen, vor der er nur die Worte Garten, freimachen stottern konnte. Als er sich mit dem Gerät in den Händen und mit leerem Kopf wiederfand, näherte er sich im Hippie-Schritt dem spriessenden Unterfangen. Unermüdlich wie der Adler, der Prometheus’ Leber verschlang, säuberte er die ganze Umgebung rund um das Haus. Er entdeckte, dass sich ein japanischer oder Versailler Garten unter dem immer feineren Ansetzen der Schere eines Mannes verbarg, der bei jedem Schnitt eine Veranlagung für Handarbeit an den Tag legte, die er sich selbst nie gegeben hätte.

Die anderen Schriftsteller selig betrachteten sein Treiben aus der Ferne, in der Überzeugung, dass so, wie die Woolf den Gedanken an den Tod der Literatur akzeptiert hatte, indem sie den Leuchtturm des Golfes in ein Hometrainer-Zentrum mit Seesicht verwandelte, auch Wallace den rechten Weg einschlagen würde.

Er ging unterdessen mit grammatikalischer Sorgfalt vor, häufte die Brennnesseln auf einer Seite, die Brombeersträucher auf der anderen auf, band das Gras zu Garben, die Arthur Schnitzler dann mitnehmen würde, der sich der Schäferei und speziell der Herstellung von Weichkäse mit leichtem Strudelgeschmack verschrieben hatte.

Die Hingabe, mit der David sich seiner Arbeit widmete, beruhigte alle, man lud ihn dann auch zu den Abendessen in Simone de Beauvoirs Gasthaus ein und erkundigte sich nach den Pflanzenarten, die er Tag für Tag in sein Notizbuch eintrug, man liess ihn bei Pétanque oder Rommé mitspielen. 

Ein erstes Anzeichen, dass nicht alles nach Plan verlief, machte sich bemerkbar, als David, sobald der Park rund um die Bibliothek in mehr als perfekten Zustand war, statt sich in der Loge des Gärtners einzurichten, an den Empfang trat und den Schlüssel verlangte. 

Die junge Frau am Empfang sah ihn mit achtzehnprozentiger Schrägsicht an, vielleicht hatte sie keine solche Beharrlichkeit erwartet, die jedoch bestätigt wurde, als DFW  von Philipp Roth, der sich sogleich der Aufzucht von Haustieren gewidmet hatte, tatsächlich zwei Deutsche Schäferhunde annahm, sie jedoch mit so strenger Disziplin erzog, dass Natalia Ginzburg, seit Jahren damit befasst, die Methode Montessori in der Landwirtschaft anzuwenden, den Kopf mehrmals gegen die verzierte Glaswand ihres Treibhauses für freiheitliche Sojasprossen schlug. Jetzt folgten ihm die beiden devot, im Doppelpack wie zwei Rubens-Putti, und warteten problemlos in der Haltung venezianischer Löwen auf ihn, ohne dass er irgendeinen Befehl aussprechen musste. Die Rezeptionistin gab ihm den Schlüssel und verzog dabei ihre Lippen zu einem seltsamen Ausdruck, dann beschränkte sie sich darauf, ihm zu sagen, der grosse sei für das äussere Schloss, der andere öffne alle inneren Türen.

 

David Foster Wallace drehte den Schlüssel im Schloss und genoss das Quietschen der rissigen Scharniere. Das Innere zeigte sich in weniger schlechtem Zustand als die Grünanlage, doch die Tapeten waren abgeblättert, die Böden brüchig, die Fensterfassungen schlingernde Schlauchbote. David kehrte zum Postkarten-Landhaus zurück und bat um Schreiner- und Malutensilien. Ein weiteres Mal bröckelten ihm vor den zwei violetten Scheinwerfern die Wörter als Phoneme aus dem Mund, eigentlich seltsam, dachte er später, da doch die Sexualität nicht in den Blutbahnen der Bewohner floss. Er stellte das Gerät in den Hauseingang, und nachdem er die Fenster weit geöffnet hatte wie Lorenzo in jenem Brief aus Ventimiglia, fing er an, die Zimmer zu reinigen, herzurichten, neu zu streichen.

Er trug einen latzhosenartigen Blaumann mit verschiedenen Werkzeugen in den Seitentaschen, das gewohnte schweissgetränkte Stirnband und zwei Roger-Federer-Turnschuhe, von denen er sich auch im Tod nicht trennte. Jede einzelne Schadstelle besserte er aus und brachte den alten Glanz zurück, in Begleitung seiner beiden Hunde, die er Jonathan und Franzen getauft hatte, und denen er, wenn die Müdigkeit wie eine Befreiung einbrach, einen langen Spaziergang an der Meeresküste gewährte, den Hügel auf der Nordseite hoch bis zuoberst, genau zu dem Punkt, an dem der Fluss entsprang, den er sich angewöhnt hatte, Verbo zu nennen.

 

Während Jonathan und Franzen Herrschaft spielten, die Felsen und die Spinnenhöhlen durchstöberten, setzte sich David auf den niedrigen Ast einer krumm gewachsenen Erle. Er zog das Notizbuch aus der Mitteltasche des Blaumanns und ging die Arbeiten des Tages durch. Beizen, feilen, fräsen, spitzen; er unterstrich die Fachbegriffe, Wörter, die so selten Eingang finden in einen Roman, und die doch oft viel interessanter klangen als die Begriffe, die man für die Gefühlswelt verwendet. Dann stand er auf und ging zum Aussichtspunkt, das Meer rund um die Insel mochte unendlich sein, oder er würde, wenn er irgendwann getrumanshowt die Grenze suchte, gegen eine Kartonmauer mit aufgemaltem Wasser und Wolken prallen. Er wusste es nicht, und im Moment beschäftigte es ihn nicht. Das Dorf der verpassten Nobelpreisträger offenbarte von oben eine zweckmässige Topografie: die Gebäude, die der Zerstreuung dienten, wie auch die Wohnhäuser bildeten ein perfektes römisches Theater, allerdings etwas gestört von einem Gitter aus Alleen und Strassen längs den grossen Bepflanzungen. Nicht weit vom Dorf lag eine weitere Insel, die Bibliothek, umflossen vom kreisförmigen Arm des Flusses Verbo. Er hatte es während der Gartenarbeiten bemerkt, als er die drei kleinen Brücken jenseits der Büsche und des Unkrauts entdeckt hatte, die den Fluss an den Punkten überquerten, von denen aus man das Dorf, Virginias Leuchtturm und den Hügel erreichen konnte. Anfang wollte er ihnen die Namen der Brücken Venedigs geben, doch dann verstand er, dass sie, da es der Fluss Verbo war, Wort, Satz und Punkt heissen mussten. 

Das Reich war schön, aber er konnte sich noch nicht mit der kühlen Melancholie der anderen Bewohner abfinden, die offenbar ganz bestimmte Dinge wussten und fühlten, welche er nicht zu erraten vermochte. Vielleicht war eines davon der Grund, dass die verpassten Nobelpreisträger ihm in dem Moment, als er mit Gärtnern aufgehört und sich ins Gewirr der Zimmer gestürzt hatte, kühler begegnet waren und den Austausch mit ihm und seinen beiden Hunden aufs Minimum beschränkt hatten. Sogar Tolstoi ging ihm aus dem Weg. DFW litt darunter, doch er hatte aus der Welt der Lebendigen zwei Stellen mit dicker Hornhaut mitgebracht, eine rechts vom linken Zeh und die andere links vom rechten Zeh. Sie verkörperten, oder zumindest sah er das so, die Einsamkeit der geraden Zahlen. Also ging er einfach weiter auf seinem Weg der Annäherung an die Bücher, langsam und vorsichtig, denn vielleicht war die Literatur wirklich nichts Gutes, aber davon musste man ihn noch überzeugen. 

 

Manchmal tauchte, von einem Bibliotheksfenster aus, während er die Jalousien reparierte oder ein Regal neu strich, der Kopf eines verpassten Nobelpreisträgers auf, der ihn verstohlen beobachtete. Er wartete, bis dies zur Gewohnheit wurde, und beschloss dann, einen Fuss in den Pub von James Joyce zu setzen. Er trat ein und stellte sich an die Theke, die anderen grüssten ihn kaum und nahmen dann ihr Gespräch wieder auf, es ging um das bevorstehende Bogenschiessturnier, das Milan Kundera auf dem Dorfplatz organisierte.  Er hatte durchaus verstanden, dass er zu schweigen, zu beobachten hatte, denn ihre betonte Distanz zu dem, was sie gewesen waren, konnte nicht ein für alle Male entschieden sein, in einer ewigen Zurückweisung des Wortes, das geschrieben wurde, um gelesen zu werden. Das Bier war gut, die Vorstellung des Bogenschiessens ebenso. Er besorgte sich die Ausrüstung und begann, sich mit den Grundlagen von Pfeil und Bogen vertraut zu machen. Wenn dann die anderen – dann sollte es so sein.

Jonathan und Franzen erwiesen sich als ausgezeichnete Apportierhunde, immer untereinander wetteifernd, wer den abgeschnellten Pfeil zuerst zurückbrachte. So nutzte David, wenn er fand, er habe genug in der Bibliothek herumgebastelt, die nicht untergehende Sonne, stellte eine Zielscheibe vor das Gebäude und versuchte, Geist und Arm in Einklang zu bringen. 

Es fehlte nicht mehr viel zum Ende der Renovierungsarbeiten. Das Bogenschiessturnier kam in einem guten Moment. Es würde etwas Zeit zwischen ihm und der Rückkehr zum Lesen legen. Er würde zu verstehen versuchen, warum das Verlangen nach Literatur einfach nicht in ihm erlosch. 

 

Schlussendlich überquerte eine Delegation verpasster Nobelpreisträger die Brücke über den Verbo und stellte sich ihm in den Weg. Da waren Elsa Morante, Anne Frank und Roberto Bolaño. David erkannte sie sofort und verspürte das starke Bedürfnis, sich auf die Wiese zu setzen und die Fragen freizulassen. Aber er hielt sich zurück. Er zurrte den Knoten des Stirnbands fest und erinnerte sich, dass das Tennisspiel wie ein Dialog war, die Verbindung von Strategie und Gewalt. 

Elsa Morante ergriff das Wort:

»David, ich sehe, dass du trainierst.«

Er nickte nur, der Satz setzte keine Frage voraus. Sie sahen ihn verärgert an. Der Aufschlag war gegen das Netz geprallt; ein langes Dribbeln ging dem zweiten Versuch voran, einem Kick-Aufschlag mit Vorwärtsdrall, der auf die Rückhand zielte. 

»Du trainierst, weil du zum Bogenschiessturnier eingeladen werden willst?« Diesmal fühlte David, wie ihm die Kinnlade herunterfiel. Er musste sich seitlich hinstellen und sich mit einem Topspin begnügen, einem langsamen Ball, der dafür wenige Zentimeter vor der Grundlinie landen sollte:

»Es freut mich, dass ihr euch die Frage stellt.«

Die Antwort kam von Anne Frank, deren eindringlicher, brauner Blick ihn durchbohrte, sie zog einen Cross-Schlag durch, der mit dem Linienkreuz flirtete. 

»Wir behalten dich im Auge, das hast du gemerkt.« Sie wartete, bis sein Kopf mechanisch nickte. »Also sag mir, willst du teilnehmen?«

»Das kommt auf euch an.« David entschied sich, sie ans Netz zu holen, er hob den Schläger, bereit für eine zweihändige Longline-Beschleunigung, schlug dann aber einen kurzen Ball, indem er versuchte, den Überraschungseffekt und den vom Londoner Rasen gebremsten Aufsprung zu nutzen. 

»Schon klar.« Anne Frank rannte wie ein Teenager im Gedicht von Camillo Sbarbaro, sie erreichte den Ball und zog ihn kurz und cross durch. »Es ist ein soziales Grundgesetz, du bist allein, wir nicht. Nenn es Machtlust, Diktatur der Mehrheit, ändern wirst du es nicht.«

David hatte schon begonnen, ans Netz zu sprinten – bescheidene Gemüter folgen dem Stoppball für den Fall, dass der Gegner schnell und intuitiv reagiert – als er merkte, dass der Ball auf die andere Seite des Feldes flog, bekam er jedoch Angst: Die Beine waren da, aber der Kopf war unschlüssig wie jener eines verliebten Priesters. Er entschied sich für einen defensiven Lob. 

»Sagen wir, wenn ihr dafür offen sein könntet, dass ich mitmache, dann wäre ich gerne dabei; wenn ihr jedoch nur gekommen wärt, um mich in meinem eventuellen Wunsch nach Gemeinschaft zu demütigen, nun, so sähe ich mich gezwungen zu antworten, dass ich mich einfach alleine vergnügte und das Turnier als Gelegenheit nahm, einen nie gehegten Traum zu vollenden.«

»Das ehrt dich, keine Frage«, nahm Elsa den Ball auf, nachdem sie sich mit einer Hand durch die wie ein Helm geschnittenen Haare gefahren war. »Ich weiss, dass du dich wie ein Fisch fühlst, dem nur gerade genug Wasser zum Atmen gelassen wurde, aber wir möchten dir sagen, dass dem nicht so ist.«

Roberto Bolaño tat einen Schritt vorwärts, kratzte sich das spitze Kinn, liess den Ball aufprallen, den Morante mit einem Lob zurückgespielt hatte. Er hielt sich für den entscheidenden Smash bereit, David tigerte im Mittelfeld herum und hoffte nicht einmal mehr, dass dem Gegner ein Fehler unterliefe.

»Du weisst es eigentlich schon, es ist Zeit, dass es dir klar wird. Was du tust, gefällt uns nicht, aber das heisst nicht, dass es falsch ist. So, jetzt habe ich es gesagt. Wenn du mitmachen willst, stört uns das nicht. Wenn du weiterhin in der Bibliothek arbeiten willst, werden wir uns damit abfinden. Wir hätten es lieber gesehen, dass du dich an die ungeschriebenen Regeln der Insel hieltest, dass du das nützliche Gefühl der Befriedigung durch Handarbeit in dir wachsen liessest, und dass du dich damit begnügtest, die Leere mit den gleichen Spielen zu bekämpfen, wie wir es tun. Aber du nicht.« Bolaño verlagerte das Gewicht vom rechten auf den linken Fuss. »Du hörst nicht auf damit, dir Fragen zu stellen, versteifst dich darauf, es müsse einen Sinn geben, und wenn der Sinn nur in der Abwesenheit von Sinn liegt, wie jener Maghrebiner schrieb, der sich wohl auf der Insel der verdienten Nobelpreisträger befindet.« Er hob eine Hand, um Wallace an der Antwort zu hindern. »Wenn es die gibt. Ich habe nicht gesagt, dass es sie gibt.«

»Das macht Sinn«, nickte David mit erhobenen Augen, in der Vorstellung, dass es sowohl die Insel der verdienten Nobelpreise gab wie diejenige der Nobelpreise, die verschwendet waren. Er hatte den Punkt verloren, der Smash hatte sich als hochfahrend und unschlagbar erwiesen.

Bolaño schnaubte heftig durch die Nase und fuhr fort: »Hier gibt es keine Antworten. Derjenige, der zuerst angekommen ist, hat sie alle ausprobiert, hat Bücher gelesen, hat die junge Frau von der Verwaltung befragt, aber dies ist die Bedingung der Insel: Es gibt keine Antworten. Was du tust, ist vergeudete Zeit. Ich rate dir, dich fürs Turnier einzuschreiben und dir eine Beschäftigung zu suchen, wie wir alle.«

»Am Turnier nehme ich auf jeden Fall teil. Für den Rest sehen wir weiter.«

»Es ist ein ehrlicher Rat«, meldete sich Anne Frank zu Wort, die nie aufgehört hatte, ihn anzuschauen, wie man eine kritische Bibliografie durchforstet um zu sehen, ob der eigene Name drinsteht.

»In Ordnung, ich denke darüber nach.« Er rückte das verschwitzte Stirnband zurecht und rief dann mit einem Fingerschnippen Jonathan und Franzen zu sich.

 

Das Bogenschiessturnier wurde im Garten der Bibliothek ausgetragen. David Foster Wallace erreichte das Halbfinal, wo er jedoch den parabolischen Flugbahnen Italo Calvinos unterlag, der es schaffte, dass seine Pfeile die Luft mit der Anmut einer Libelle zerteilten. Aber auch er musste auf Robin Hoods Zepter verzichten, angesichts der skrupellosen Präzision eines Jorge Luis Borges. Dessen Bewegungen waren katzenhaft, reiherartig. Beim Wettschiessen mit beweglichem Ziel sah man ihm dann mit wahrem Vergnügen zu. David kam sich vor wie ein Bruder Vanzina vor Andrej Rubljow und verstand, das die Postmoderne die Werte auf dem Feld durcheinanderwarf, aber nicht veränderte. 

 

Danach nahm das Leben weiter seinen Lauf. Die verpassten Nobelpreisträger verstreuten sich über die Insel, jeder in seiner Bleibe, jeder mit seiner Tätigkeit beschäftigt. Wallace staubte die Bücher sorgfältig ab und stellte fest, dass ihre Anordnung der Reihenfolge ihrer Landung entsprach. Seine Bände gehörten also zu den Letzten, die angekommen waren. Nachdem er einige Minuten mit dem Durchblättern der eigenen Werke verbracht hatte, verstand er, dass die Unterhaltsarbeiten ihn nicht wirklich ausfüllen würden, da gab es noch etwas, das versucht werden konnte, etwas, das eventuell, vielleicht.

Nach dem Pub, dem Dart- oder Flipperturnier kehrte David Foster Wallace in den grossen Bibliothekssaal zurück, in den er den Mahagonischreibtisch beim Eingang geschoben hatte. Er nahm ein Buch aus einem der Regale, legte die Füsse in die rechte Schublade, las. Eines Nachts, vielleicht wegen der Müdigkeit der Augen, vielleicht auch weil die Stelle eines Romans von Dürrenmatt ihm trotz des Deutsch musikalisch erschien, fing er an, mit lauter Stimme zu lesen. In dem Moment erwachte der Kommissär Matthäi am Letzten für ihn zum Leben. Er sass auf der Steinbank seiner Tankstelle an der Strasse, die von Graubünden nach Zürich führt. Seine Hand umklammerte ein Gläschen Schnaps und er beobachtete David, wie man ein Gespenst beobachtet, das soeben den Schweizerpsalm gesungen hat.

»Wer bist du?«, fragte er ihn, ohne einen Muskel seines in ewiger Erwartung erstarrten Gesichts zu verziehen. »Was willst du?«

»Ich bin David«, antwortete er. »Bist du der Kommissär Matthäi?«

»Ich bin nicht mehr Kommissär, ich führe nun diese Tankstelle. David, hast du gesagt? Ich hatte gehofft, du seist Friedrich.«

»Nein, tut mir leid. Aber er ist hier, auf der Insel. Soll ich ihm etwas ausrichten?«

»Nein. Dir werde ich etwas sagen. Erinnerst du dich, wie ich Gritlis Mutter versprach, ich würde den Mörder ihrer Tochter fassen?«

»Ja, natürlich. Wie könnte ich das vergessen?«

»Gut. In diesem Moment merkte ich, dass ich über meine Kräfte hinausging, und als ich mein Leben zu vergeuden begann, hatte es zum ersten Mal einen vollen Sinn. Ich weiss nicht, ob du mich verstehst.«

»Ich bin mir nicht sicher.«

»Behalte es im Kopf«, er stürzte die weissliche Flüssigkeit hinunter, »man weiss nie.«

 

David sah ihn verschwinden, so wie er aufgetaucht war, mit der Steinbank und allem. Er blieb still, entgeistert, flabustiert. Er wusste nicht, ob er weiterfahren sollte, da knallte das offene Fenster, als hätte ein Windstoss es zugeschlagen. Auch Jonathan und Franzen erschraken, denn auf der Insel hatte es nie gewindet. Als sie aus der Bibliothek traten, verdüsterte eine grosse, schwarze Wolke die Sonne.

Sie war, war wunderschön. Er stieg sofort zuoberst auf den Hügel, zur Quelle des Verbo, um sie besser zu sehen, um den Schatten auf dem Dorf anzuschauen und die verpassten Nobelpreisträger, die sich zum ersten Mal fast rennend bewegten, dabei auf den Himmel zeigten.

Die Bewohner brauchten etwas Zeit, bis sie merkten, dass die Insel sich veränderte, weil David Foster Wallace wieder angefangen hatte, die Romanfiguren zu befragen. Er rief die Protagonisten, indem er ihre Passagen laut vorlas, und sie erschienen, erzählten von sich, erkundigten sich nach ihm und seinem Tun und Denken. 

Die Bibliothek erwachte jede Nacht zum Leben, und ihre Zimmer konnten ein edles Wohnzimmer in Sankt Petersburg sein und gleich danach das kleinbürgerliche Zuhause eines Angestellten, Pferde und Motorräder stürmten herein, wunderschöne Frauen und Sheriffs mit stets geladener Pistole. Und bei jeder Begegnung, die sich in jenen Zimmern ereignete, veränderte sich dort draussen etwas. Wind, Regen, Wellen. Jemand hatte gesehen, wie Virginia Woolf die Fenster des Leuchtturms sperrangelweit öffnete und die Hometrainer ins Meer warf. Dann hatte sie sich auf einen Felsen gesetzt, an den die wildesten Wellen brandeten. Calvino und Borges hatten sich Tischlerwerkzeug beschafft und hatten begonnen, Bäume zu fällen und abzuhobeln, vielleicht wollten sie ein Boot bauen. 

Daraufhin erschienen Elsa Morante, Anne Frank und Roberto Bolaño in der Bibliothek, puterrot wie ein Raucher nach zweihundert Treppenstufen. »Was hast du getan?« schrien sie, als sie die Tür aufrissen und sich in einer mexikanischen Wüste wiederfanden. 

David schaute sie an und hob einen Finger an die Lippen. Nicht jetzt, dachte er, und setzte sein Gespräch mit Benno von Arcimboldi fort. Der sass auf der Motorhaube eines verbeulten amerikanischen Autos, trank ein Bier und sagte, »denk daran, die Literatur erklärt dir, dass die Schönheit nicht das ist, was schön ist oder was gefällt, sie ist nicht in den Dingen und auch nicht im Auge des Betrachters. Es ist einfacher als das, weisst du, es ist simpel wie ein Nominalsatz. Aber wenn du es nicht von alleine verstehst, dann ist diese Insel noch der richtige Ort für dich.«

Published June 10, 2025
© Tommaso Soldini
© Specimen


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