Primavera 1946 From Città senza demoni

Written in Italian by Roberto Francavilla

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Un cane ringhiava nel buio, da un anfratto al fondo di un giardino che, con la luce del mezzogiorno, le sarebbe sembrato accogliente, esposto al sollievo. Il cane, fuori dalla portata dello sguardo, lo si sarebbe potuto immaginare aggressivo, trattenuto da una robusta catena di ferro, di guardia a una casa, a un giardino ordinato e protetto. O forse, al contrario, era libero e vagava per le strade. Un cane perduto fra quelle vie senza rumori e anime. Poteva essere il fantasma di Dilermando che veniva a ricordarle l’empietà del gesto con cui lei ne aveva deciso la sorte. Latrava dal profondo della notte comunicandole nel suo alfabeto misterico che nessuna creatura merita di essere abbandonata in quel modo. Lei, che capiva il linguaggio degli animali, era profondamente turbata da quel messaggio.

Ora fingeva con se stessa di poter identificare che tipo di sentimento fosse in realtà espresso in quei versi per sviare dall’onda anomala del senso di colpa che allagava in un istante e all’improvviso il suo letto, la sua sabbia. Era un gioco che serviva a mitigare il rimorso, ma il rimorso ritornava come un sapore nella bocca. Forse quel suono canino che si propagava nell’aria caliginosa non era una minaccia, piuttosto un monito e non un desiderio di vendetta. Il caro, dolce Dilermando.

I cani non si rivoltano mai contro i loro padroni, pensava, accettano le loro decisioni anche se non le comprendono, i cani obbediscono. Meglio ancora: e se, invece, il fantasma di Dilermando si fosse trovato effettivamente lì, da qualche parte, nella strada deserta, inviato apposta dall’averno per fare la ronda intorno alla sua casa, per difenderla dalle insidie di quella città silenziosa e spenta? E se quel ringhio prepotente fosse stato un segnale rivolto al nemico? Non provate ad avvicinarvi alla mia padrona, lei è buona e gentile anche se mi ha abbandonato, anche se il vento si è portato via il suo buon odore umano, il suo profumo di fiori e tabacco, di vestiti di seta, di matite nuove e carta, di frutta fresca appoggiata in una ciotola al centro della tavola come in un dipinto, anche se è fuggita nella neve lasciando dietro di sé tracce sbiadite, impronte sempre meno visibili.

Chi fugge nella neve lascia sempre qualcosa dietro di sé, lei lo sapeva bene. Anche quando le orme svaniscono in un attimo ricoperte da altri strati o assorbite nel ciclo naturale del disgelo. La neve e la notte insieme, le erano intollerabili. La neve, la notte, le scintille rosse che dai tetti delle isbe incendiate si sollevavano in vampe subito attaccate dal freddo, e le grida.

 

Quando si svegliò, il cane aveva smesso di abbaiare. Le piaceva riaversi dal sonno subito prima dell’alba, quando ogni cosa è ancora sconosciuta. Svegliarsi è dare il nome, pensava, e quasi sempre soffrire per quel riconoscimento mortifero che interrompe i sogni. 

Non si era ancora abituata a nulla, ci sarebbe voluto del tempo.

Quello era un nuovo inizio. A volte, appena sveglia, faticava a ricordare dove si trovasse, stentava a riconoscere la disposizione dei mobili nella camera da letto, dove fossero collocate le finestre semichiuse attraverso le quali permetteva che un lacerto della luce opaca di quella città senza luce mitigasse il buio dello spazio domestico, nel cuore della notte. Non aveva mai veramente paura – d’altronde quali pericoli avrebbe potuto nascondere quel luogo così circoscritto? –, ma capitava spesso che Maury la lasciasse nell’evidente asimmetria di un letto matrimoniale abitato da una sola figura che ne occupava la metà nella luce (una luce non troppo fioca, proviene da un abat-jour e serve a leggere), mentre la metà in ombra accoglieva l’idea di un corpo che era stato lì ma che adesso dimorava, anche se provvisoriamente, in un altrove, come il ritaglio di una sarta appoggiato a uno scampolo di stoffa scura o, peggio, il contorno di un cadavere disegnato da un poliziotto con un gessetto sul selciato.

L’altrove di Maury, però, è la meta di una semplice visita diplomatica a Zurigo, un banale spostamento di lavoro, questione di due o tre giorni. Non è una tenebra definitiva ad avvolgere il suo lato del letto matrimoniale, ma ombra, e quell’imitazione labile di un chiarore che si appoggia al lato vuoto del letto rende la sua assenza meno concreta. Alza una diga al gorgo che potrebbe risucchiarla, se il buio fosse totale. Luce e ombra, calore del corpo che abita quelle pieghe fra le lenzuola, la camicia da notte di popeline e, dall’altra parte, il freddo lino color crema perfettamente stirato e solitario, sotto alla coperta intonsa, in attesa di un ritorno.

 

Le mani di Maury: com’erano fatte? Non le ricordava. Non riusciva a immaginarle in quei momenti in cui lui era lontano, quei momenti fatti apposta per evocare l’intreccio saldo delle sue dita nodose, le unghie curate (anche se gli uomini non dovrebbero avere per forza le unghie curate: unghie di contadini, di mani avvezze a sollevare attrezzi, a indossare guanti unti di combustibile, di oli per lubrificare macchine, unghie di pittori da cui è difficile e perfino inutile rimuovere con la trementina i residui di colore, o quelle ingiallite dei fumatori). “Ma no,” pensava, “tutto sommato vorrei sentire la mancanza delle mani di Maury, delle unghie pulite di Maury, ma non le riesco a vedere nella lontananza. Possibile che non abbiano impresso nella mia retina, nella mia memoria, alcuna immagine?”

C’era una cosa che le piaceva, specie al mattino del sabato, molto presto, quando fuori era ancora buio: ascoltare la colonna dei camion del mercato arrivare lungo Nydeggasse e penetrare lentamente nella città vecchia, nelle sue piazze, come un lungo rettile all’interno di un frutto, una grande jaca appena rovinata a terra dal suo ramo, gialla e succulenta, sproporzionata, che avrebbe presto liberato i suoi effluvi pestilenziali se il serpente non l’avesse divorata in tempo.

Mentre immaginava il percorso del rettile dentro al frutto viscido, appiccicoso e zuccherino, fu colta da un improvviso senso di fastidio: paragonare quella città a un frutto tropicale rasentava il blasfemo. E poi, perché perseverare, come chiusa in una gabbia, con quelle metafore australi che in qualche modo la precipitavano nell’idea del suo paese più che mai lontano? Doveva liberarsene una volta per tutte. Doveva liberarsi una volta per tutte da certi ricordi a cui avrebbe permesso di tornare a visitarla solo in vecchiaia, non certo adesso che era paurosamente giovane, come mesi più tardi le avrebbe sussurrato Herr Fuchs dopo aver ingollato tre bicchieri di porto invecchiato e aver concesso libertà a un pensiero futile e sensuale.

Già che c’era, avrebbe dovuto liberarsi anche di quel senso di colpa. La attanagliava ogni volta che sentiva in lontananza i guaiti di un cane e, con il cuore chiuso in una stretta, andava con la mente al salottino dell’appartamento di Napoli, al Consolato, il tavolo rotondo (perfetto per sedute spiritiche che aveva progettato, immaginato e mai osato realizzare) appoggiato con i suoi tre piedi cabalistici sul tappeto persiano (forse, persiano) a losanghe rosse e viola, con le lunghe frange rosicchiate in cui Dilermando conficcava i suoi dentini aguzzi e bianchi simulando lotte con nemici che si animavano nella sua fantasia. Lei restava a guardarlo amorevolmente, seduta in pizzo al divanetto ingombro di carte, fogli battuti a macchina, traduzioni di poesie, documenti ufficiali dimenticati da Maury fra i capitoli del suo romanzo: lui li avrebbe ritrovati puntellati da sbuffi di cenere e li avrebbe ricomposti nella sua valigetta diplomatica, sorridendo.

Era stato un errore imperdonabile non calcolare che le strettissime direttive internazionali in fatto di trasporto di animali le avrebbero impedito di portare con sé il suo meticcio napoletano, e adesso era costretta a fare i conti con la riprova del fatto che, quando si lascia un luogo, si abbandona sempre qualcosa di prezioso alle proprie spalle. 

Era stato un errore altrettanto imperdonabile non tenere conto delle stagioni.

Avrebbero dovuto trasferirsi in Svizzera in estate, con il caldo, possibilmente un caldo afoso e spietato da cui voler subito fuggire. Ma adesso, di spietato c’era la primavera, con i suoi riflessi arancioni che scendevano dalle montagne e tracciavano diagonali di luce fra le strade del centro, violando le arcate dei portici come spighe di grano gonfie e affilate.

Perché avevano lasciato Napoli (e Roma, e Firenze) in primavera. D’altronde non si poteva aspettare. Maury assecondava gli eventi nel rispetto mai ossequioso ma sempre moralmente responsabile del suo senso del dovere. Un uomo serio, Un uomo per bene, Un brav’uomo. Quante volte lo avrebbe sentito definire in quei modi? E quante volte lo avrebbe ricordato così, si chiedeva, se mai la loro storia d’amore, un giorno, avesse dovuto finire?

Fra di loro, per scherzo, si riferivano al direttore del suo dipartimento chiamandolo “il boss”, come fosse un gangster. Ne ridevano insieme, ma ogni volta che lui ritornava dall’ufficio dell’Ambasciata esordendo con la frase “il boss mi ha chiesto di”, la bocca di Clarice si piegava in un sorriso amaro perché sapeva che a quelle richieste sarebbe seguito puntualmente il ritaglio di un tempo rubato (piccoli viaggi all’interno del paese, soprattutto a Ginevra e a Zurigo, riunioni con autorità diplomatiche). Come se dal pannello della loro vita insieme qualcuno staccasse una singola parte dotata di paesaggio che sarebbe diventato un paesaggio fosco, e di notti che sarebbero diventate notti insonni, e di passeggiate che sarebbero state solitarie e immancabilmente inquinate dalla tristezza.

In ogni grande città ci si sente stranieri, in quelle piccole ci si sente estranei, l’aveva letto da qualche parte. Le città piccole amplificano la felicità ma anche l’infelicità, e il fiume che le attraversa, o i binari della ferrovia, o il deserto, impediscono che il sentimento si espanda e trovi sbocchi, ripiegandosi invece fra le strette vie del centro o dovunque trovi spazio, nei tombini, nei lavatoi di ardesia, nei cimiteri. Lì c’era un fiume arrotolato su se stesso come un rettile dormiente a contenere quei porticati umidi e odorosi di granaglie e salumi, di stoffe demodé e di forzieri. Il fiume la insospettiva e la ammaliava, come se il corso delle sue acque fosse circolare e non diretto verso una foce, e le sue anse fossero abitate da mostri e covassero il pericolo di gorghi improvvisi.

 

Chiuse di nuovo gli occhi, anche se era ormai mattina inoltrata, e si concentrò sulle scie luminose che la retina proiettava in quella notte di palpebre. Squillò il telefono, il trillo ripeteva se stesso con l’insistenza di un macchinario inceppato, ma poi il volume scemava sistemandosi in un altrove di caverne, di fabbriche abbandonate, di isole deserte. Il telefono eseguiva in sordina, da una landa smisurata, la sua allegra filastrocca di una sola nota che lei, a un certo momento, smise di sentire.

Nel punto in cui il trillo si estinse dentro di lei, pur continuando nella realtà del corridoio – dove l’apparecchio nero di bachelite dominava l’angolo di un’orrenda consolle –, seppe che all’altro capo c’era Maury in piedi nella hall di un hotel di Zurigo (quasi certamente La Réserve Eden au Lac). Maury elegante con il suo cravattino color crema portato all’inglese (il solito nodo mezzo windsor che eseguiva in un paio di secondi con il gesto svolazzante di un prestigiatore dopo essersi pettinato con cura, la mano aperta sui capelli neri, e dopo aver spruzzato un getto di acqua di colonia sul fazzoletto), appoggiato al bancone della reception, osservato dagli occhi vigili di un portiere in marsina, mentre, afflitto, ascoltava il fruscio delle onde elettrostatiche nel ricevitore, pregando in silenzio affinché Clarice rispondesse.

 

Le valigie erano arrivate dall’Italia ormai da qualche giorno, eppure lei si ostinava a cercare scuse per non doverle affrontare, per non dover sganciare le piccole fibbie di metallo ed estrarre un corredo che se ne stava sepolto nel buio, placidamente dimenticato. Si limitava a osservarle, depositate una a fianco all’altra, in ordine di grandezza, a ingombrare il corridoio sempre in penombra. Avrebbe voluto poter resistere con i cambi di biancheria che aveva portato nel viaggio. Non aveva nessuna voglia di aprirle. Il fatto che tutto rimanesse com’era, che si potesse prolungare quello stato di pausa, come se lei fosse ancora con i piedi sulla soglia di quella città e non ne avesse varcato i limiti, le permetteva di alimentare per brevi frangenti la sua fragile illusione: le valigie erano già pronte per abbandonare così com’erano, in ordine di grandezza, l’opacità snervante di quello spazio per essere spedite, via posta diplomatica, a Rio de Janeiro.

Era letteralmente atterrita dalla rivelazione della natura nient’affatto transitoria di quel soggiorno svizzero. Quella consapevolezza la attanagliava, la mordeva alle caviglie, le faceva mancare il respiro. Il battito del suo cuore si inceppava e quella maligna extrasistole le rivelava che si sarebbe trattato probabilmente di molto tempo. Quel tempo era strappato dal destino alla sua vita, alla sua gioventù. Aveva venticinque anni.

 

Maury sapeva che, oltre alla redazione delle lettere che Clarice scambiava quasi quotidianamente con le sorelle, c’era un’altra cosa che poteva distoglierla – anche se in maniera illusoria – dal peso di quelle contingenze, dalla nostalgia per il Brasile e dal senso di angoscia e solitudine che l’addio a Napoli le aveva causato: l’effimero di una serata di gala e l’occasione di poter fare nuove conoscenze. L’Ambasciata brasiliana organizzò un ricevimento al Bellevue Palace, i cui saloni arredati impeccabilmente in stile neoclassico (seppure con qualche lieve cedimento al kitsch negli stucchi) si affacciavano sul lago creando, a seconda dell’incidenza della luce, una scenografia sensuale di bagliori restituiti dall’acqua. Anche se erano lontani i tempi in cui una linea invisibile attraversava quei saloni separando come una frontiera di roccia i dignitari austro-ungarici dai loro omologhi inglesi e francesi, si poteva invece percepire ancora l’ombra degli intrighi che spie internazionali avevano tessuto fino alla fine della guerra e che probabilmente continuavano a tessere accomodati sugli sgabelli vellutati dell’American bar. Il ricevimento aveva lo scopo di introdurre i nuovi arrivati fra i rappresentanti del governo locale e di alcuni diplomatici di altri paesi.

Published August 3, 2025
© Roberto Francavilla
© Feltrinelli 2025

Primavera de 1946 From Città senza demoni

Written in Italian by Roberto Francavilla


Translated into Portuguese by Marcela Magalhães de Paula

Um cão rosnava no escuro, vindo de uma reentrância no fundo de um jardim que, sob a luz do meio-dia, lhe pareceria acolhedor, exposto ao alívio. O cão, fora do alcance do olhar, poderia ser imaginado agressivo, preso por uma corrente de ferro robusta, guardando uma casa, um jardim ordenado e protegido. Ou talvez, ao contrário, estivesse solto e vagueasse pelas ruas. Um cão perdido entre aquelas ruas sem ruídos nem almas. Podia ser o fantasma de Dilermando, vindo lhe lembrar da impiedade do gesto com que ela tinha decidido o seu destino. Latia do fundo da noite, comunicando-lhe, em seu alfabeto misterioso, que nenhuma criatura merece ser abandonada daquela forma. Ela, que compreendia a linguagem dos animais, estava profundamente perturbada por aquela mensagem.

Agora fingia para si mesma poder identificar que tipo de sentimento fosse de fato expresso naqueles versos para se desviar da onda anômala do sentimento de culpa que inundava, num instante e repentinamente, sua cama, sua areia. Era um jogo que servia para mitigar o remorso, mas o remorso voltava como um gosto na boca. Talvez aquele som canino que se espalhava no ar enevoado não fosse uma ameaça, mas sim um aviso e não um desejo de vingança. O querido, doce Dilermando.

Os cães nunca se voltam contra seus donos, pensava, aceitam suas decisões mesmo sem entendê-las, os cães obedecem. Melhor ainda: e se, na verdade, o fantasma de Dilermando estivesse realmente ali, em algum lugar, na rua deserta, enviado diretamente do Averno para rondar em volta de sua casa, para defendê-la dos perigos daquela cidade silenciosa e apagada? E se aquele rosnado presunçoso fosse um sinal dirigido ao inimigo? Não ouse se aproximar da minha dona, ela é boa e gentil, mesmo que me tenha abandonado, mesmo que o vento tenha levado embora seu bom cheiro humano, seu perfume de flores e tabaco, de vestidos de seda, de lápis novos e papel, de fruta fresca pousada numa tigela no centro da mesa como em uma pintura, mesmo que tivesse fugido na neve deixando para trás apenas suas trilhas apagadas, pegadas cada vez menos visíveis.

Quem foge na neve sempre deixa algo para trás, ela sabia disso muito bem. Mesmo quando as pegadas desaparecem por um instante cobertas por outras camadas ou absorvidas no ciclo natural do degelo. A neve e a noite juntas, lhe eram insuportáveis. A neve, a noite, as faíscas vermelhas que dos telhados das izbas incendiadas se erguiam em chamas logo engolidas pelo frio, e os gritos. 

Quando acordou, o cão já havia parado de latir. Gostava de acordar do sono logo antes da aurora, quando todas as coisas ainda são desconhecidas. Acordar é dar o nome, pensava, e quase sempre sofrer por aquele reconhecimento mortífero que interrompe os sonhos.

Não estando ainda acostumada a nada, levaria tempo

Aquele era um novo começo. Às vezes, mal acordava, custava a lembrar onde estava, tinha dificuldade em reconhecer a disposição dos móveis no quarto, onde estavam colocadas as janelas semicerradas que permitiam que um fragmento da luz opaca daquela cidade sem luz mitigasse a escuridão do espaço doméstico, no coração da noite. Nunca havia tido realmente medo – afinal, que perigos aquele lugar tão circunscrito poderia esconder? – , mas frequentemente acontecia de Maury deixá-la na evidente assimetria de uma cama de casal habitada por uma única figura que ocupava metade na luz (uma luz não muito fraca, provém de um abajur que também serve para leitura), enquanto a outra metade na sombra acolhia a ideia de um corpo que estivera ali mas que agora habitava, mesmo que temporariamente, em outro lugar, como o molde de uma costureira apoiado num pedaço de tecido escuro ou, pior ainda, o contorno de um cadáver desenhado por um policial com giz no asfalto.

O alhures de Maury, no entanto, era destino de uma simples visita diplomática a Zurique, um banal deslocamento de trabalho, coisa de dois ou três dias. Não era uma treva definitiva a envolver seu lado da cama de casal, mas uma sombra, uma imitação tênue de claridade que repousa ao lado vazio do colchão tornando sua ausência menos concreta. Ergue uma represa contra o redemoinho que poderia engoli-la, se a escuridão fosse total.

Luz e sombra, calor do corpo que habita aqueles vincos entre o lençol, a camisola de dormir de popeline e, do outro lado, o frio do linho perfeitamente estendido e solitário, sob a colcha intocada, à espera de um retorno.

As mãos de Maury: como eram feitas? Não se lembrava. Não conseguia imaginá-las naqueles momentos em que ele estava longe, justamente naqueles momentos feitos para evocar o entrelaçamento sólido de seus dedos ossudos, as unhas bem feitas (ainda que os homens não precisem, necessariamente, ter as unhas bem cuidadas: unhas de camponeses, de mãos acostumadas a levantar ferramentas, a usar luvas sujas de combustível, de óleos para lubrificar máquinas, unhas de pintores das quais é difícil, e até inútil, remover com terebintina os resíduos de tinta, ou aquelas amareladas dos fumantes).

“Mas não”, pensava ela, “no fundo, eu queria sim sentir falta das mãos de Maury, das unhas limpas de Maury, mas não consigo vê-las na distância. Será possível que não tenham deixado na minha retina, na minha memória, qualquer imagem?”

Havia uma coisa de que ela gostava, especialmente nas manhãs de sábado, bem cedo, quando ainda estava escuro lá fora: ouvir a fila de caminhões do mercado chegar pela Nydeggasse e penetrar lentamente na cidade velha, em suas praças, como um longo réptil entrando no interior de um fruto, uma grande jaca recém-caída do galho, amarela e suculenta, desproporcional, que em breve liberaria seus eflúvios pestilentos, caso a serpente não a devorasse a tempo.

Enquanto imaginava o percurso do réptil dentro do fruto viscoso, pegajoso e açucarado, foi tomada por uma súbita sensação de incômodo: comparar aquela cidade a um fruto tropical beirava a blasfêmia. E depois, por que insistir, como se estivesse presa numa jaula, nessas metáforas austrais que, de certo modo, a lançavam de volta à ideia de seu país, agora mais distante do que nunca? Precisava se libertar delas de uma vez por todas. Precisava se libertar de uma vez por todas daquelas recordações as quais só se permitiria retornar quando estivesse velha, jamais agora, agora que era perigosamente jovem, como meses depois lhe sussurraria Herr Fuchs, depois de engolir três cálices de vinho do Porto envelhecido e dar liberdade a um pensamento fútil e sensual.

Já que estava nisso, devia se libertar também daquela culpa. A estrangulava cada vez que ouvia ao longe os ganidos de um cão e, com o coração encolhido, voltava mentalmente à saletinha do apartamento em Nápoles, ao Consulado, à mesinha redonda (perfeita para sessões espíritas que ela havia arquitetado, imaginado e jamais ousado realizar), apoiada sobre seus três pés cabalísticos no tapete persa (talvez, persa) de losangos vermelhos e roxos, com franjas longas e roídas onde Dilermando cravava seus dentinhos afiados e brancos, simulando lutas com inimigos que ganhavam vida em sua fantasia. Ela o observava com ternura, sentada na beirada do sofazinho abarrotado de papéis, folhas datilografadas, traduções de poemas, documentos oficiais esquecidos por Maury entre os capítulos de seu romance: ele os reencontraria salpicados de cinza e os organizaria novamente em sua pasta diplomática, sorrindo.

Fora um erro imperdoável não ter calculado que as rigorosíssimas normas internacionais sobre transporte de animais a impediriam de levar consigo seu vira-lata napolitano, e agora era forçada a lidar com a prova de que, ao deixar um lugar, algo precioso fica sempre para trás.

Também fora um erro, igualmente imperdoável, não ter levado em conta as estações do ano.

Deveriam ter se mudado para a Suíça no verão, com o calor, de preferência um calor sufocante e impiedoso, do tipo que faz querer fugir imediatamente. Mas agora, quem era impiedosa era a primavera, com seus reflexos alaranjados que desciam das montanhas e traçavam diagonais de luz pelas ruas do centro, violando os arcos dos pórticos como espigas de trigo inchadas e afiadas.

Por que haviam deixado Nápoles (e Roma, e Florença) na primavera? Por outro lado, não podiam esperar. Maury se deixava conduzir pelos acontecimentos, com um senso de dever nunca submisso, mas sempre moralmente responsável. Um homem sério. Um homem decente. Um homem de bem. Quantas vezes o teria ouvido ser descrito assim? E quantas vezes o lembraria desse modo, perguntava-se ela, caso um dia a história de amor dos dois viesse a terminar?

Entre eles, em tom de brincadeira, chamavam o chefe do seu departamento de “o boss”, como se fosse um mafioso. Riam juntos disso, mas toda vez que ele voltava do escritório da Embaixada e começava com a frase “o boss me pediu para…”, a boca de Clarice se curvava num sorriso amargo, porque sabia que, a essas solicitações, seguiria pontualmente o recorte de um tempo roubado (pequenas viagens dentro do país, principalmente a Genebra e Zurique, reuniões com autoridades diplomáticas). Como se, do mural da vida dos dois, alguém arrancasse uma peça isolada dotada de paisagem, que se tornaria uma paisagem turva, e de noites, que se tornariam noites insones, e de passeios, que seriam solitários e inevitavelmente contaminados pela tristeza.

Em toda grande cidade, a gente se sente estrangeiro, nas pequenas, se sente estranho, tinha lido isso em algum lugar. As cidades pequenas amplificam tanto a felicidade quanto a infelicidade, e o rio que as atravessa, ou os trilhos da ferrovia, ou o deserto, impedem que o sentimento se expanda e encontre saída, fazendo-o, pelo contrário, recuar pelas ruelas do centro ou por qualquer lugar onde caiba, nos bueiros, nos tanques de pedra, nos cemitérios. Ali havia um rio enrolado sobre si mesmo como um réptil adormecido, contendo aqueles pórticos úmidos e impregnados de cheiro de grãos e embutidos, de tecidos fora de moda e de arcas antigas. O rio despertava nela desconfiança e fascínio, como se o curso de suas águas fosse o de circular e não conduzisse a nenhuma foz, e suas curvas escondessem monstros e alimentassem o risco de redemoinhos repentinos.

Fechou novamente os olhos, embora já fosse manhã alta, e se concentrou nas trilhas luminosas que a retina projetava naquela noite de pálpebras. O telefone tocou, a campainha dele se repetia com a insistência de uma engrenagem emperrada, mas depois o volume foi diminuindo, como se se acomodasse num outro lugar, um além feito de cavernas, fábricas abandonadas, ilhas desertas. O telefone executava em surdina, vindo de uma terra imensa e vazia, a sua alegre cantilena de uma nota só que ela, em certo momento, deixou de ouvir.

No instante em que o toque se extinguiu dentro dela, mesmo continuando na realidade do corredor – onde o aparelho preto de baquelite dominava o canto de uma horrenda cômoda – , ela soube que, do outro lado da linha, estava Maury, em pé no saguão de um hotel em Zurique (quase certamente o La Réserve Eden au Lac).

Maury elegante, com sua gravatinha creme à inglesa (o nó meio-Windsor de sempre, que ele fazia em poucos segundos com o gesto leve de um ilusionista, depois de pentear cuidadosamente o cabelo negro com a mão aberta, e borrifar um jato de água de colônia no lenço), apoiado no balcão da recepção, observado pelos olhos atentos de um porteiro de casaca, enquanto, aflito, ouvia o chiado das ondas eletrostáticas no fone, rezando em silêncio para que Clarice atendesse.

As malas já tinham chegado da Itália fazia alguns dias, mas ela insistia em encontrar desculpas para não ter de encará-las, para não ter de soltar as pequenas fivelas metálicas e extrair um enxoval que jazia enterrado na escuridão, placidamente esquecido. Limitava-se a observá-las, colocadas lado a lado, em ordem de tamanho, ocupando o corredor sempre em penumbra. Queria conseguir resistir apenas com as mudas de roupa que havia trazido na viagem. Não tinha a menor vontade de abri-las. O fato de que tudo permanecesse como estava, que fosse possível prolongar aquele estado de suspensão, como se ela ainda estivesse com os pés no limiar daquela cidade, sem tê-la realmente atravessado suas fronteiras, permitia-lhe alimentar, por breves momentos, sua frágil ilusão: as malas já estavam prontas, exatamente como estavam, para abandonar a opaca exaustão daquele espaço e serem enviadas, por mala diplomática, para o Rio de Janeiro.

Estava literalmente apavorada com a revelação da natureza nada transitória daquela estadia suíça. Essa consciência a apertava, mordia-lhe os tornozelos, tirava-lhe o ar. O batimento de seu coração se descompassava, e aquela maligna extrassístole lhe dizia que provavelmente se trataria de muito tempo. Um tempo arrancado pelo destino de sua vida, de sua juventude. Tinha vinte e cinco anos.

Maury sabia que, além da redação das cartas que Clarice trocava quase diariamente com as irmãs, havia uma outra coisa que podia distraí-la – ainda que de forma ilusória – do peso daquelas circunstâncias, da saudade do Brasil e da angústia que a despedida de Nápoles havia lhe causado: o efêmero de uma noite de gala e a possibilidade de fazer novos contatos.

A embaixada brasileira organizou uma recepção no Bellevue Palace, cujos salões, impecavelmente decorados em estilo neoclássico (ainda que com algumas discretas concessões ao kitsch nos estuques), se abriam para o lago, criando – conforme a incidência da luz – um cenário sensual de reflexos devolvidos pela água. Mesmo que já tivessem ficado para trás os tempos em que uma linha invisível atravessava aqueles salões separando, como uma fronteira de rocha, os dignitários austro-húngaros de seus homólogos ingleses e franceses, ainda era possível perceber a sombra dos intrigas tramadas por espiões internacionais até o fim da guerra – e que provavelmente continuavam a ser tramadas ali mesmo, acomodados nos bancos aveludados do bar americano.

A recepção tinha como objetivo apresentar os recém-chegados aos representantes do governo local e a alguns diplomatas de outros países.

Published August 3, 2025
© Roberto Francavilla
© Marcela Magalhães de Paula


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In 2025, Babel Festival celebrates its twentieth anniversary.
Since 2006, Babel has brought writers and poets to the stage of the Teatro Sociale in Bellinzona to tell their stories and discuss their work, the craft of writing, and their relationship with language. More often than not, they have done so alongside their translators, privileged interlocutors who know the original texts more intimately than anyone else. For every translated book is written twice—and has, in fact, two authors.
To mark the occasion, Specimen is publishing a special dossier devoted to the festival, retracing the geographies we have crossed together through a selection of texts by some of the voices that have accompanied us on this long journey.
From Europe to the Middle East, from Africa to the Americas, the dossier gathers previously unpublished texts—in both the original languages and in translation—spanning Turkish and Georgian, Russian and Spanish, Caribbean English and Brazilian Portuguese.
It features: Goffredo Fofi, Giorgio Orelli, Derek Walcott, Ismail Kadare, Jamaica Kincaid, Mikhail Shishkin, Elena Botchorichvili, Roberto Bolaño, Ilide Carmignani, Adam Zagajewsky, Patrick Chamoiseau, Elizabeth Walcott-Hackshaw, Linton Kwesi Johnson, Aslı Erdoğan, Irvine Welsh, Silvia Pareschi, Kader Abdolah, Frédéric Pajak, Jean Echenoz, Georgi Gospodinov, Seynabou Sonko, Roberto Francavilla.


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