Teo

Pomeriggio. Luci soffuse, persiane abbassate, tende chiuse. Gaza in sottofondo. Un po’ di fumo di stufa, fiamme vive nel camino, in fondo silenzio. Suona il telefono e mi dico che devo accoglierlo, affrontarlo. Non ci riesco. Mando un messaggio per guadagnare un po’ di tempo, ma non ha senso procrastinare. Non sono pronta ora e non lo sarò neanche tra cinque minuti. Tanto vale. 

J: Come stai?
T: Alti e bassi. Come in una lavatrice.
J: È uno stato statico, rimuginante, o senti che c’è evoluzione?
T: C’è evoluzione.
J: …
T: Tu?
J: … … …
J: Ci siamo incontrati.
T: E?
J: …
T: …
J: …risonanza. C’è.
[…]

Tertianum

Al Tertianum ceniamo con Bruce Willis stasera. È il marito di Angelica, badante di papà, lo incontro per la prima volta. C’è anche Rolf, Barbara, il signor Frasa, la famiglia strana col barboncino gigante, il signore di cui ho dimenticato il nome, sempre seduto al tavolo rotondo nell’angolo, spesso da solo a volte con la moglie, più frequentemente con Alexa che parla ad alta voce del suo libro. Ci sono anche Roberto e Salvatore e Gandhi. Bruce è un “vero uomo”, grande e forte, mani enormi e capaci, occhi blu e spirito sveglio. Uno di quelli che la sanno lunga su quasi tutto quel che c’è di pratico, tatuaggi sugli avambracci, orecchini e pelata. Ha un fascino tutto suo, barbaro discendente di barbari, siculo e non ricordo che altro, normanno forse, ha un’aria scandinava. Mi aiuta a portar su le otto bottiglie d’alcool fino alla stanza di papà, ho avuto il coraggio di chiederglielo. Sono pesanti, e io ho perso forze da quando faccio lo sciopero della fame. 

B: Che fai nella vita?
J: Comunicazione visiva. [spiego]
B: E tuo marito?
J: … … … fa anche lui il grafico… ma non siamo sposati. [imbarazzo visibile]

Mentre Bruce e io parliamo alzo papà dal letto, gli raddrizzo i pantaloni e le calze che si attorcigliano sempre quando sta sdraiato, lo spolvero per togliergli le briciole di tabacco di dosso, lo aiuto a sedersi in carrozzina, gli metto scarpe e giacca, gli preparo l’astuccio della pipa, gli infilo gli occhiali macchiati d’unto. Bruce lo spinge nel corridoio, entriamo nell’ascensore, scendiamo al quarto piano e ci sediamo al nostro tavolo. Bruce continua con le sue domande, ma gliene bastano poche per giungere al punto.

B: Ah, quindi tu stai a Tenero e il tuo uomo dove sta?
J: A Losanna.
B: Ah! Lascia perdere, hai bisogno di più. Non per intromettermi nella tua vita ma le relazioni a distanza non possono funzionare, perché si ha bisogno non per forza di convivere ma d’esserci l’un per l’altro quando serve, e basta poco sai, un aperitivo e c’è qualcuno che ti piace e…
J: … infatti stiamo proprio in questo, e oltre. 

Vado a prendere Rolf, che è seduto a tavola accanto a noi ma da solo. Rolf e io siamo innamorati, anche se lui non si ricorda sempre del mio nome. Si ricorda però sempre di me, in fondo è quel che conta. Gli dico ti porto il caffè di là e lo aiuto a spostarsi dalla sedia alla carrozzina. È felice. Gli serviamo altri quattro bicchierini di vino rosso oltre alla dose che gli è concessa di bere, in sordina. 

R: Ach! Si isch so lieb! So lieb! Aber du weisch das wahrschindlich besser als ich.
B: Nei, ich triff sie zum erschte mal, aber ich weiss dass sie lieb und speziell isch.
R: Wie heissisch du scho wieder? [Ha già dimenticato il nome di Bruce, che parla anche lo svizzero tedesco]
B: Bruce, immer na.
R: Ah, ich bi de Rolf.
P: Ich bi de Leo. [Papà si ricorda che Rolf lo ricorda col nome di Leo, e fa un po’ di stanco umorismo per dire almeno qualcosa]¹

J: Vuoi la mia tartare? [ne è rimasta più di metà nel mio piatto]
B: Non farmi brutti scherzi.
J: Sto facendo lo sciopero della fame per Gaza.
B: Mmmh.
J: Andiamo a fumare? Tu fumi?
B: Fumo. Ho fumato come un dannato. Anche altro. Per vent’anni. Ma ora sai, con la famiglia… non ci sta più. Sono tutte cazzate. Ai tempi andavo a Zurigo e si faceva festa da giovedì notte a domenica sera, senza mai dormire.
J: Ah. Anch’io ho avuto il mio periodo. Capisco.
B: Bisogna preservare la salute, curarsi di se stessi.
J: … forse ci ritroveremo tutti qua, tra vent’anni. 

Parco della cacca

Bruce è partito perché domattina alle quattro si mette in strada per la Puglia. Mi ha abbracciata e mi ha dato due o tre baci sulla guancia e ora ho il suo odore incollato al mio. Firmo la fattura per papà, che non sa più firmare. Gandhi sta appiccicato alle caviglie di Salvatore dietro il bancone del bar, sperando vivamente in un’altra ricompensa. Salvatore ha un Jack Russell di nome Cash, per cui sa bene come comportarsi. Porto papà in camera con Roberto che ci aziona il lift con la sua chiave, perché papà ha di nuovo perso la sua. Finisce sempre per riapparire, non mi preoccupo. Lo sistemo sul balcone con sciarpa e berretto, gli verso una grappa abbondante, nascondo la nuova bottiglia dietro il pilastro, gli dico di chiamare le infermiere, gli dico a domani. 

J: Andiamo al parco.
G: Va bene, andiamo, andiamo!
J: Stammi al piede.
G: Va bene.
J: Attraversiamo.
G: Va bene.
J: …

[G fa i suoi giri e i suoi bisogni mentre il mio pensiero evade. Si strofina la schiena sotto la pianta che mi piacerebbe piantare in giardino e da cui ho prelevato, a varie riprese, sperma e fiori, solo per poi dimenticarmene nella borsa, e quando me ne ricordavo erano già marci]

J: Andiamo a casa, vieni!
G: Va bene.

Papà mi chiama per dire che non viene nessuno a salvarlo dal balcone. Chiamo la centralina delle infermiere per dire che sono partita e che c’è bisogno che qualcuno vada a metterlo a letto. Svetlana mi dice che manda qualcuno subito. Mi metto in strada. 

J: …

[Venti secondi ed eccomi a passare accanto alla casa-fuoco e alle sue lucine. Mi parte un urlo al contrario, come quello di Blixa Bargeld in Salamandrina, che non serve a niente perché sono da sola in macchina e nessuno può sentirmi, ma forse è lo scopo]

J: Come sono finita ad esternare i miei sentimenti come un animale ferito?
J: …
G: …

[Mi attraversa la strada un gatto nero, da sinistra a destra. Ci metto un attimo a focalizzarlo]

[Inforco la via della collina, senza sapere se è finalmente aperta. Anche se lo fosse, ci sono i tombini rialzati da evitare]

Provo a chiamarti, consapevole che sto entrando in terreno minato. Mi manchi. Rivoglio le lucine. Rivoglio le tue mani sui miei fianchi, le tue parole mercuriali nel mio orecchio. Essere distesa accanto alla tua pelle nuda e percepirti scivolare nel sonno. Il primo caffè mentre ancora fa buio. È tutto così flebile e astratto. Così delicato. Potrebbe spezzarsi come un sogno che si dilegua appena espresso, di primo mattino. Eppure c’è dell’altro. Lo sento. Ma tu lo senti?

V: Scusa. Cena. Discussione cose sensibili
V: Non nostre.

J: …

[Mi attraversa la strada uno scoiattolo nero, da sinistra a destra. Quelli invasivi di cui gli autoctoni vorrebbero sbarazzarsi]

Fuoco

La strada era aperta e i tombini li ho evitati uno a uno. Milo sta consumando la lasagna che gli ho lasciato in frigo per evitare che faccia la mia fine. Almeno lui deve mangiare. 

M: Ciao mamma.
J: Devo scrivere, adesso!

[Sul suo volto si traccia un sorriso divertito. Mi capisce perfettamente. Non siamo stati così vicini da quando ha perso interesse per le mie tette. Sempre vicini, ma non proprio così tanto, come adesso. A volte ho l’impressione che ci condividiamo un’anima sola, che tra lui e me non ci sono frontiere, confini, distanze, differenze ma che siamo una cosa unica, anche quando il suo corpo è da una parte e il mio da un’altra. A volte le forme dei ruoli si dissolvono per qualche istante e allora mi sembra di star vedendo l’infinito – fa quasi paura –  e dimentico che sono madre lui figlio, potrebbe benissimo essere il contrario o altro, o tanto altro. A volte è come guardarmi allo specchio, e viceversa. Capita che la gente ci confonda per fratelli, che non veda la differenza]

[Accendo il fuoco, mi verso un calice di prosecco, metto musica, tiro fuori il tavolino di bambù, attacco la spina alla macchina, apro una pagina bianca]

Her

Milo va a letto e le bestie mi stanno troppo addosso. Eva mi fissa con i suoi occhi strabici e vuole qualcosa, come sempre, ma cosa non è chiaro neanche a lei, È sullo spettro, non è capace di chiedere bene. Quando miagola il suono esce stridulo e decisamente irritante. Va a carezzare i nervi per il verso sbagliato. Gandhi sa cosa vuole invece: attenzione. Ma io non ho spazio ora né per uno né per l’altro. Devo scrivere. 

J: Lasciatemi in pace voi due, ho bisogno di spazio.
E: …
G: Sei sicura?
J: Sì!
G: Sicura sicura?
J: Sì!!
G: Ma io vorrei essere accarezzato…
J: O Gesù!
G: … … … [se ne dondola via, testa bassa e coda tra le gambe]
[Eva non miagola più ma sorride cinicamente, adora sentirsi superiore quando Gandhi si umilia]
[Mando Gandhi in terrazza, forse trova qualche corvo da rincorrere]

[Mi rifocalizzo sulla pagina]

Now that I’m alone I notice Her, sitting there with arms crossed tight, quivering lips and the stare, trying to fight back tears or screams or both, I can never tell. She scared the shit out of me the first time I met her. I’d never laid eyes on such wrath except for Carletto, but he was harmless in comparison, because he did the graceful thing and let himself die. Not her. She hadn’t caught my presence at first, poor thing. Crouching over her famished limbs in the gloom, what remained of her dress ripped and filthy, strands of greasy hair dangling from her head. When she noticed me and looked up I felt horror. She was too much to take in, I couldn’t bear her, I fled. Over time it got easier. I would gradually manage to stay a little longer, to exchange a few words, to actually listen to what she had to say without panicking. I would bring her something clean and warm to wear, some food. I would comb her hair and hold her, sometimes silently, sometimes whispering reassuring things. She’d been abandoned for so long, I felt responsible. Over time her anger diminished and other, more tolerable emotions surfaced. Her pain, however, never went away. It never might. She obviously has trust issues, she is always on guard. We know each other quite well by now. Probably not well enough, though.

J: How long have you been there? You scared me!
H: Stop doing that.
J: Doing what?
H: Ignoring me, again.
J: …
H: I’ve been sitting here for at least a month and you barely noticed me.
J: I know. I am sorry.
H: …
J: You’re upset, I can see it.
H: I’ve been upset for a while.
[She lowers her head and softens up a bit]
H: I DON’T like it!
J: What?
H: Make them go AWAY!
[Now I lower my head]
J: You know that that isn’t the smart thing to do. It leads nowhere, we’ve tried it.
H: …
J: You’re triggered right now.
H: Of course I am triggered, what did you expect?! You drag me through this fucking mess and hope I’d just shut up? You know I have problems with certain things.
H: And I am NEVER EVER going back to that awful pit again, I swear!
J: Nobody is asking you to return to the pit.
H: You do, sometimes…
J: … … …
J: [ashamed] You are right. I still have to work on that. I am sorry.
H: See? It’s been a month and where was I for you?
J: [ashamedly curious] Have you been in the pit?
H: At times.
J: … how was it? … Bearable?
H: More than before, but I hate that place with my guts.
J: I’m not sure you can use that expression to define hate for a place…but in your case… might be justified…
J: At least now you can come and go…
H: At least.
H: You know what I also hate?
J: What?
H: When you are clingy.
J: I hate myself too when I’m clingy, believe me.
H: So why don’t you stop?
J: It’s not that easy.
H: You are weak.
J: …
H: If you hate something you do but do it anyway it means you are weak.
J: You’re probably right, it is a weak spot.
J: Fuck! There’s still so much we’ve got to work on, you and me…
J: Speaking of which, tell me, why are you starving yourself?
H: To not depend.
J: Ah.

She agrees to go to sleep, it is very late by now. I am not sure I’ll manage – too many thoughts – but I drift away quickly, without even noticing, which is a relief. Then, all of a sudden, the strange perception that you are here with us. Your presence is so real that the mattress sinks on the side you’ve sat down. Eva meows. Your mood is not like ours. Playful and such, mercurially poking and spreading here and there, swiftly and lightly, amused. I can hear you, I can feel you. Maybe your dinner instilled you with all this effervescence, maybe it’s in your nature. Between alertness and slumber I’m not sure if it is her or me who pushes you away and tells you to go. It must be her, I wouldn’t do that.²

***

¹
R: Ah! È così brava, così carina! Ma tu lo sai meglio di me probabilmente.
B: No, la incontro per la prima volta oggi ma so che è brava e speciale.
R: Come ti chiami tu? [Ha già dimenticato il nome di Bruce, che parla anche lo svizzero tedesco]
B: Sempre Bruce.
R: Ah, io sono Rolf.
P: Io sono Leo. [Papà si ricorda che Rolf lo ricorda col nome di Leo, e fa un po’ di stanco umorismo per dire almeno qualcosa]

²
Ora che sono sola mi accorgo di lei, seduta dietro lo schermo a braccia incrociate, labbro tremolante e sguardo fisso, sembra stia cercando di trattenere le lacrime o le urla o entrambe, non riesco mai a decifrare. Il nostro primo incontro era stato terrificante. Mai vista tanta rabbia a parte in Carletto, ma lui al confronto era innocuo perché aveva optato per il gesto caritatevole di togliersi la vita. Non lei. Ci aveva messo un attimo ad accorgersi della mia presenza, rannicchiata nella penombra con quei suoi arti emaciati, i pochi brandelli che restavano del suo vestito strappati e sudici, ciocche di capelli unti che le penzolavano sulla fronte. Quando ha alzato lo sguardo per fissarmi – uno sguardo insostenibile – sono fuggita. Con il tempo è diventato più facile. A poco a poco riuscivo a rimanere più a lungo, a scambiare qualche parola, ad ascoltarla per davvero senza farmi prendere dal panico. Le portavo qualcosa di pulito e caldo da mettere, un po’ di cibo. La pettinavo e la tenevo in braccio, a volte in silenzio, a volte sussurrandole cose rassicuranti. Era stata abbandonata per così tanto tempo, mi sentivo responsabile. Gradualmente la sua rabbia si era affievolita e affioravano altre emozioni, più tollerabili. Il dolore però non è mai scomparso, ci sarà sempre. Va da sé che ha problemi di fiducia, è sempre in allerta. Adesso ci conosciamo piuttosto bene. Forse, però, non ancora abbastanza.

J: Quant’è che sei qui? Mi spaventi!
H: Devi smetterla.
J: Smettere cosa?
H: Di ignorarmi, di nuovo.
J: …
H: Sono seduta qui da almeno un mese e mi hai a malapena notata.
J: Lo so. Mi spiace.
H: …
J: Sei turbata, lo vedo.
H: È da parecchio che sono turbata.
[Abbassa lo sguardo, si intenerisce un po’].
H: NON mi piace!
J: Cosa?
H: FALLI ANDARE VIA!
[Ora sono io ad abbassare lo sguardo]
J: Sai che non è la cosa giusta da fare. Non ci porta nulla di buono, è una strada che abbiamo già percorso.
H: …
J: Sei triggerata in questo momento.
H: Certo che sono triggerata, cosa ti aspettavi?! Mi trascini in questo caos sperando che me ne stia tranquilla? Sai che ho problemi con certe cose.
H: E non torno MAI PIÙ in quella fossa orribile, lo giuro!
J: Nessuno ti chiede di tornare nella fossa.
H: Tu, a volte, sì…
J: … … …
J: [vergognosa] Hai ragione. Devo lavorarci. Mi dispiace.
H: Vedi? È passato un mese e dove sono stata io per te?
J: [vergognosamente curiosa] Sei stata nella fossa?
H: A tratti.
J. … Com’è stato? … Sopportabile?
H: Più di prima, ma ODIO quel posto.
J: Almeno ora puoi andare e venire…
H: Almeno.
H: Sai cos’altro odio?
J: Cosa?
H: Quando fai l’appiccicosa.
J: Anch’io mi odio quando sono appiccicosa, credimi.
H: Perché non smetti allora?
J: Non è così facile.
H: Sei debole.
J: …
H: Se non ti piace qualcosa che fai ma lo fai comunque significa che sei debole.
J: Probabilmente hai ragione, è un punto debole.
J: Cazzo! C’è ancora così tanto su cui dobbiamo lavorare, io e te…
J: A proposito, dimmi, perché hai smesso di mangiare?
H: Per non dipendere.
J: Ah.

Accetta di andare a dormire, è già molto tardi. Non sono sicura di riuscirci – troppi pensieri – ma mi assopisco velocemente, senza nemmeno accorgermene. È un sollievo. All’improvviso mi invade la strana sensazione che tu sia qui con noi. La tua presenza è così reale che il materasso si affossa nel punto in cui ti sei seduto. Eva riprende a miagolare. Il tuo umore non è come il nostro. Ti sparpagli attorno a noi con agilità mercuriale, punzecchiandoci qua e là leggero, veloce, divertito. Ti sento, ti percepisco. Forse è la tua cena che ti ha infuso tutta questa effervescenza, forse è la tua natura. Nel torpore non so se sia io o lei a spingerti via e a dirti di andartene. Dev’essere stata lei, io non lo farei.

Teo

Afternoon. Dimmed light, lowered blinds, pulled curtains. Gaza in the background. A little smoke from the stove, live flames in the fireplace, silence in the background. The phone rings and I tell myself I must take it, face it. I can’t. I send a text to buy some time, but there is no point in that. I’m not ready now, I won’t be in five minutes. Might as well. 

J: How are you doing?
T: Up and down. Like in a washing machine.
J: Is it a static, brooding state, or do you feel there is evolution?
T: There is evolution.
J: …
T: You?
J: … … …
J: We’ve met.
T: And?
J: …
T: …
J: There is… resonance.
[…]

Tertianum

At the Tertianum we’re having dinner with Bruce Willis tonight. He is Angelica’s husband, dad’s caregiver. It’s the first time we meet. There’s also Rolf, Barbara, Mr. Frasa, the odd family with the giant poodle, the gentleman whose name I have forgotten, always sitting at the round table in the corner, often alone, sometimes with his wife, more frequently with Alexa talking aloud about his book. Roberto, Salvatore and Gandhi are also there. Bruce is a “real man”, big and strong with huge capable hands, blue eyes and a quick wit. One of those guys who knows his way around almost everything practical, forearm tattoos, earrings, shaved head. He’s got a charm all of his own, a barbarian descendant of barbarians, of Sicilian origins and I can’t remember what, Norman perhaps. A Scandinavian something. He helps me to carry the eight bottles of alcohol up to dad’s room, I dared to ask him. They’re heavy, and I’ve lost strength since I stopped eating.

B: What do you do in life?
J: Visual communication. [I explain]
B: And your husband?
J: … … … he, too, is a graphic designer… but we’re not married. [visible embarassement]

While Bruce and I talk, I pull dad out of bed, straighten his pants and socks – they always get twisted when he’s lying down – dust the tobacco crumbs off him, help him sit in his wheelchair, put on his shoes and jacket, get his pipe case ready, slip on his grease-stained glasses. Bruce pushes him into the hallway, we enter the elevator, go down to the fourth floor and sit at our table. Bruce’s questions keep coming, but it only takes him a few more to get to the point.

B: OK, so you’re staying in Tenero and your man is staying where?
J: In Lausanne.
B: Ah! Drop it, you need more. Not to meddle, but long-distance relationships can’t work, you don’t necessarily need to live under the same roof but to be there for each other when it’s needed, and it only takes a little you know, a night out and there’s someone you like and…
J: … in fact we’re right there, and beyond. 

I go and get Rolf, who is sitting at the table next to ours but alone. Rolf and I are in love, although he doesn’t always remember my name. He does, however, always remember me. After all, that’s what counts. I tell him I’ll take his coffee over there and help him move from the chair to the wheelchair. He is happy. We discreetly pour him four more sips of wine, in addition to the amount he’s allowed to drink.

R: Ach! Si isch so lieb! So lieb! Aber du weisch das wahrschindlich besser als ich.
B: Nei, ich triff sie zum erschte mal, aber ich weiss dass sie lieb und speziell isch.
R: Wie heissisch du scho wieder?[[He’s already forgotten Bruce’s name, who also speaks Swiss German]
B: Bruce, immer na.
R: Ah, ich bi de Rolf.
P: Ich bi de Leo. [Dad remembers that Rolf remembers him as Leo, and uses a bit of stale humor to at least say something]¹

J: Would you like my tartare? [more than half of it is left on my plate]
B: Don’t mess with me.
J: I’m on hunger strike for Gaza.
B: Mmmh.
J: Should we go for a smoke? Do you smoke?
B: I smoke. I’ve been smoking like hell. Other things, too, for twenty years. But now you know, having a family, it’s just not fitting anymore. It’s all bullshit. Back in the day I used to go to Zurich from Thursday to Sunday, from party to party, without ever sleeping.
J: Ah. I had my phase, too. I understand.
B: Health must be preserved.
J: … maybe we’ll all meet up here in twenty years.

Poop Park

Bruce went home because tomorrow morning at four o’clock he’ll be on the road to Apulia. He hugged me and gave me two or three pecks and now I have his smell glued to mine. I sign the invoice for dad, who is no longer able to sign. Gandhi is clinging to Salvatore’s ankles behind the bar counter, fervently hoping for another reward. Salvatore has a Jack Russell named Cash, he knows his way around. I take dad upstairs. Roberto operates the lift for us, because dad has lost his key again. It always ends up reappearing, I don’t worry yet. I set him up on the balcony with a scarf and a cap, pour him a schnapps, hide the new bottle behind the pillar, tell him to call the nurses, tell him see you tomorrow. 

J: Let’s go to the park.
G: All right, let’s go, let’s go!
J: Heel!
G: All right.
J: Let’s cross.
G: All right.
J: …
[G goes about his business while my thoughts evade. He rubs his back under the bush I’d like to plant in the garden, from which I’ve collected flowers and sperm more than once, only to forget them in my bag, and by the time I’d remember they’d already withered]
J: Let’s go home, come on!
G: All right.

On the road

Dad calls to say nobody’s coming to rescue him from the terrace. I call the nurses’ station to say that I’ve left and that someone needs to go get him and put him to bed. Svetlana promises she’ll send someone right away. I hit the road. 

J: …

[Twenty seconds later and here I am, driving past the Fire-House with its fairy lights. I scream inwardly, like Blixa Bargeld in Salamandrina, which is quite useless, because I’m in the car all by myself and no one can hear me, but maybe that’s the point]

J: How did I end up externalizing my feelings like a wounded animal?
J: …
G: …

[A black cat dashes across the street, from left to right]

[I take the hill-road, not knowing if it’s finally transitable. Even if it is, there are the raised manholes to avoid]

I try to call you, well aware that I’m stepping into a minefield. I miss you. I want the fairy lights back. I want your hands on my hips again, your mercurial words in my ears. To lie next to your bare skin and sense you slipping into sleep. The first coffee while it’s still dark. It’s all so faint and abstract. So delicate. It could break like a dream that fades at dawn, as soon as expressed. Yet there is more to it. I can feel it. Can you?

V: Sorry. Dinner. Discussion of sensitive things
V: Not ours.

J: …

[A black squirrel crosses the road, left to right. The invasive ones the natives would like to get rid of]

Fire

The road was transitable and I’ve managed to avoid the manholes one by one. Milo is consuming the lasagna I left in the fridge to prevent him from ending up like me. At least one has to eat. 

M: Hi mom.
J: I have to write, right away!
[An amused smile pops up on his face. He understands me perfectly. We haven’t been this close since he lost interest in my nipples. Always close, but not quite as close as now. Sometimes I feel that we share one soul, that between him and me there are no borders, boundaries, distances or differences but that we are one, even when his body is in a place and mine somewhere else. Sometimes the shapes of the roles dissolve for a moment and it’s like glaring into the infinite – it’s almost scary – and I forget that I’m the mother and he is the son, it could very well be the other way round or else, or so much else. Sometimes it’s like looking at myself in the mirror, and vice versa. Sometimes people confuse us for siblings, they don’t see the difference]

[I light the fire, pour a glass of prosecco, put on some music, pull out the bamboo table, plug in the machine, open a blank page]

Her

Milo goes to bed and the animals are all over the place. Eva fixes me with her squinting eyes and wants something, as always, even if she does not know what. She’s on the spectrum and is not able to ask well. When she meows the sound comes out shrill and definitely irritating, it rubs the nerves the wrong way. Gandhi knows all too well what he wants: attention. But I’ve got no room for neither now. I need to write. 

J: Leave me alone you two, I need space.
E: …
G: Are you sure?
J: Yes!
G: Sure sure?
J: Yes!!!
G: But I would like to be cuddled….
J: O Christ!
G: … … … [he sways away, head down, tail between his legs]
[Eva no longer meows but cynically smiles, she loves to feel superior when Gandhi humiliates himself]
[I send Gandhi on the terrace, maybe he’ll find some crow to chase]

[I refocus on the page]

Now that I’m alone I notice Her, sitting there with arms crossed tight, quivering lips and the stare, trying to fight back tears or screams or both, I can never tell. She scared the shit out of me the first time I met her. I’d never laid eyes on such wrath except for Carletto’s, but he was harmless in comparison, because he did the graceful thing and let himself die. Not her. She hadn’t caught my presence at first, poor thing. Crouching over her famished limbs in the gloom, what remained of her dress ripped and filthy, strands of greasy hair dangling from her head. When she noticed me and looked up I felt horror. She was too much to take in, I couldn’t bear her, I fled. Over time it got easier. I would gradually manage to stay a little longer, to exchange a few words, to actually listen to what she had to say without panicking. I would bring her something clean and warm to wear, some food. I would comb her hair and hold her, sometimes silently, sometimes whispering reassuring things. She’d been abandoned for so long, I felt responsible. Over time her anger diminished and other, more tolerable emotions surfaced. Her pain, however, never left her. It never might. She obviously has trust issues, she is always on guard. We know each other quite well by now. Probably not well enough, though.

J: How long have you been there? You scared me!
H: Stop doing that.
J: Doing what?
H: Ignoring me, again.
J: …
H: I’ve been sitting here for at least a month and you barely noticed me.
J: I know. I am sorry.
H: …
J: You’re upset, I can see it.
H: I’ve been upset for a while.
[She lowers her head and softens up a bit]
H: I DON’T like it!
J: What?
H: Make them go AWAY!
[Now I lower my head]
J: You know that that isn’t the smart thing to do. It leads nowhere, we’ve tried it.
H: …
J: You’re triggered right now.
H: Of course I am triggered, what did you expect?! You drag me through this fucking mess and hope I’d just shut up? You know I have problems with certain things.
H: And I am NEVER EVER going back to that awful pit again, I swear!
J: Nobody is asking you to return to the pit.
H: You do, sometimes…
J: … … …
J: [ashamed] You are right. I still have to work on that. I am sorry.
H: See? It’s been a month and where was I for you?
J: [ashamedly curious] Have you been in the pit?
H: At times.
J: … how was it? … Bearable?
H: More than before, but I hate that place with my guts.
J: I’m not sure you can use that expression to define hate for a place…but in your case… might be justified…
J: At least now you can come and go…
H: At least.
H: You know what I also hate?
J: What?
H: When you are clingy.
J: I hate myself too when I’m clingy, believe me.
H: So why don’t you stop?
J: It’s not that easy.
H: You are weak.
J: …
H: If you hate something you do but do it anyway it means you are weak.
J: You’re probably right, it is a weak spot.
J: Fuck! There’s still so much we’ve got to work on, you and me…
J: Speaking of which, tell me, why are you starving yourself?
H: To not depend.
J: Ah.

She agrees to go to sleep, it is very late by now. I am not sure I’ll manage – too many thoughts – but I drift away quickly, without even noticing, which is a relief. Then, all of a sudden, the strange perception that you are here with us. Your presence is so real that the mattress sinks on your side. Eva meows. Your mood is not like ours. Playful and such, mercurially poking and spreading here and there, swiftly and lightly, amused. I can hear you, I can feel you. Maybe your dinner instilled you with all this effervescence, maybe it’s in your nature. Between alertness and slumber I’m not sure if it is her or me who pushes you away and tells you to go. It must be her. I wouldn’t do that.

***

¹
R: Oh! She’s so nice! So nice! But you probably know that better than me.
B: No, I’m meeting her for the first time, but I know she’s nice and special.
R: What’s your name again?
B: Still Bruce.
R: Ah, I am Rolf.
P: I am Leo.

Teo

Poslepodne je. Svetla su prigušena, roletne spuštene, zavese navučene. U pozadini, Gaza. Nešto dima iz peći, plamičci vatre ližu zidove kamina, u biti svega tišina. Telefon zvoni, moram odgovoriti na poziv – kažem sebi – primiti ga, suočiti se sa njim. Ne mogu. Šaljem poruku da dobijem na vremenu, ali ni odlaganje nema svrhe. Nisam spremna, ni sada niti ću biti za pet minuta. Neka, onda.

J: Kako si?
T: Gore-dole. Kao u veš mašini.
J: Je l’ stojiš u mestu i razbijaš glavu određenim mislima, ili osećaš da ima pomaka?
T: Ima pomaka.
J: …
T: A ti?
J: … … …
J: Videli smo se.
T: I?
J: …
T: …
J: … ista talasna dužina.
[…]

Tercijanum

Večeras je u Tercijanumu i Brus Vilis. Večeramo zajedno. On je muž Anđelike, tatine  negovateljice, prvi put ga vidim. Tu su i Rolf, Barbara, pa gospodin Fraza, ona čudna porodica sa džinovskom pudlom, gospodin čijeg se imena ne sećam, uvek sedi za okruglim stolom u ćošku, često sâm, ponekad sa ženom a ponajviše sa Aleksom koja na sav glas priča o njegovoj knjizi. Tu su i Roberto, Salvatore, i Gandi. Brus je „pravo muško“, velik je i snažan, ogromnih, sposobnih ruku, očiju plavih i budan duhom. Jedan je od onih što znaju sve o svemu što može da zatreba, ima tetovaže na podlakticama, pirsinge u ušima i ćélu. Šarmantan je na svoj način, varvarin potekao od varvara, sicilijanac i još svašta nešto što mi promiče, možda norman, pomalo podseća na skandinavce. Pomaže mi da ponesem uza stepenice osam flaša alkohola do tatine sobe, smogla sam snage da ga zamolim. Teške su, a ja sam onemoćala otkako štrajkujem glađu.

B: Čime se baviš?
J: Vizuelnom komunikacijom. [objašnjavam]
B: A tvoj muž?
J: … … … i on je grafičar… ali nismo venčani. [vidljiva nelagodnost]

Dok Brus i ja razgovaramo dižem tatu sa kreveta, ispravljam mu pantalone i čarape – zgužvaju se uvek od ležanja – pokupim mrvice duvana koje su po njemu popadale, pomažem mu da se smesti u kolica, obuvam mu cipele, oblačim jaknu, pripremam pribor za lulu, natuknem naočare sa masnim otiscima na staklima. Brus ga gura hodnikom, ulazimo u lift, silazimo do četvrtog sprata i sedamo za naš sto. Brus postavlja još pitanja, ne mnogo, ali dovoljno da pređe na stvar.

B: A, znači ti živiš u Teneru, a tvoj čovek, gde on živi?
J: U Lozani.
B: Oooo! Mani ga se, nema ništa od toga, tebi treba više. Ne može te on zadovoljiti. Ne bih da ti se mešam, ali veze na daljinu ne rade, ne zato što morate po svaku cenu da delite krov nad glavom nego što treba biti blizu kada ste jedno drugom potrebni, a znaš, tako malo je dovoljno, popiješ aperitiv i neko ti se svidi i…
J: … da, tu smo već stigli, a otišli smo i dalje. 

Idem po Rolfa, koji sedi za stolom do nas, ali sam. Rolf i ja smo zaljubljeni jedno u drugo, nema veze što on ne može baš uvek da se seti kako se zovem. Ali uvek se seti ko sam, a to je jedino bitno. Kažem prineću ti kafu i pomažem mu da se prebaci iz stolice u kolica. Srećan je. Sipamo mu još četiri čašice crvenog vina povrh sledovanja za koje ima dopuštenje, neupadljivo. 

R: Ach! Si isch so lieb! So lieb! Aber du weisch das wahrschindlich besser als ich.
B: Nei, ich triff sie zum erschte mal, aber ich weiss dass sie lieb und speziell isch.
R: Wie heissisch du scho wieder? [Već je zaboravio kako se zove Brus, koji priča i švajcarski nemački]
B: Bruce, immer na.
R: Ah, ich bi de Rolf.
P: Ich bi de Leo. [Tata se seti da ga Rolf zna po tom imenu i umorno se našali tek da nešto kaže]¹

J: Hoćeš moj tatar biftek? [na tanjiru je ostalo više od pola porcije]
B: Nemoj da me zezaš, preteruješ.
J: Štrajkujem glađu zbog Gaze.
B: Mmm.
J: Hajde idemo da zapalimo po jednu, je l’ti pušiš?
B: Pušim. Pušio sam kao Turčin. I još štošta. Dvadeset godina. Ali sada, znaš, porodica… ne ide. Sve je to sranje. Tad sam išao u Cirih i bančili smo od četvrtka unoć do nedelje uveče, a da oka ne sklopimo.
J: Ah. I ja sam prošla kroz lude godine. Razumem.
B: Treba čuvati zdravlje, voditi računa o sebi.
J: … možda se nađemo svi ponovo, ovde, za dvadeset godina. 

Park za pse 

Brus je otišao jer u četiri ujutro kreće autom za Pulju. Zagrlio me je i poljubio dva tri put u obraz pa je sada njegov miris zalepljen za moj. Potpisujem račun u tatino ime, on više ne zna da se potpiše. Gandi se iza barskog pulta ne odvaja od Salvatoreovih gležnjeva, očito se nada još kakvoj poslastici. Salvatore ima džek rasela po imenu Keš pa dobro zna šta se od njega očekuje. Dok tatu vodim u sobu pomaže mi Roberto, koji pušta lift u pogon svojim ključem, tata je opet izgubio svoj. Na kraju uvek od nekud iskrsne, ne brinem. Smeštam tatu na balkon, nameštam mu šal i kapu, sipam obilnu meru rakije, stavljam novu bocu u skroviše iza stuba, kažem mu da zove bolničara, kažem mu vidimo se sutra.

J: Idemo u park.
G: Dobro, dobro, idemo!
J: Uz nogu.
G: Važi.
J: Prelazimo ulicu.
G: Važi.
J: …
[G se šetka i obavlja nuždu dok moje misli beže. Češe leđa pod biljkom koju bih rado presadila u svoj vrt i od koje sam, više puta, uzimala spermu i cveće, a ove redovno zaboravljala u tašni, dok ih izvučem već istrule]
J: Idemo kući, dođi!
G: Važi.

U putu

Tata me zove da mi kaže da još niko nije došao da ga uvede u sobu sa balkona. Zovem bolničare na centrali da im saopštim da sam ja otišla i da neko treba da ga stavi u krevet. Svetlana mi kaže da će odmah poslati nekoga. Zapućujem se.

J: …

[Dvadeset sekundi je prošlo i ja prolazim tik uz plamenu kuću i njena svetlašca. Ispuštam krik unazad, kao Bliksa Bargeld u Salamandrini, koji nema efekta budući da sam u autu sama i niko me ne čuje, ali je možebiti sam sebi svrha]

J: Kako je uopšte došlo do toga da svoja osećanja ispoljavam kao ranjena zver?
J: …
G: …
[Crna mačka mi pređe put, s leva na desno. U sekundi je spazim]

[Uspinjem se brdskim putem a da ne znam jesu li ga raskrčili. I da jesu, ima šahtova koje treba zaobići]

Okrećem broj, svesna da stupam na minsko polje. Nedostaješ mi. Hoću ponovo da vidim svetlašca. Hoću ponovo da osetim tvoje ruke na mojim bedrima, tvoje reči od žíve u ušima. Da legnem uz tvoju golu kožu i gledam te dok toneš u san. Prva kafa pre svitanja. Sve je tako lahorasto i apstraktno. Tako tanano. Moglo bi nestati kao san što se razveje čim ga, ranim jutrom, obznaniš. Pa ipak, ima tu još nečeg. Osećam. Osećaš li isto, ti? 

V: izvini. Večera. Pričamo o delikatnim temama
V: Ne našim.

J: …

[Crna veverica mi pređe put, s leva na desno. Od onih dođoških što pitome domaće gledaju da isteraju]

Vatra

Put je prohodan a svaki šaht sam pažljivo zaobišla, ni jedan nisam zakačila. Milo troši lazanju koju sam ostavila u frižideru kako ne bi završio kao ja. Barem on mora jesti.

M: Ćao mama.
J: Sad imam da pišem!
[Na Milovom licu bljesne šeretski osmeh. Savršeno me razume. Nismo bili ovoliko bliski otkako je izgubio interesovanje za moje sike. Bliski, da, uvek, ali ne baš ovoliko, kao sada. Ponekad mi se čini da delimo jednu dušu, da među nama nema granica, graničnih prelaza, udaljenosti, razdele, već smo jedno, čak i kada se njegovo telo nalazi na jednom mestu a moje na drugom. Spočim se forme, uloge, na tren rastvore a meni kao da se ukaže večnost – skoro me plaši – pa zaboravim da sam majka a on sin, moglo bi mirne duše biti obrnuto, ili šta drugo, ili štagod drugo. Ponekad je kao da gledam svoj odraz u ogledalu, i on mene. Dešava nam se da ljudi pomisle da smo brat i sestra, da ne opaze razliku]

[Palim vatru, sipam čašu proseka, puštam muziku, izvlačim stočić od bambusa, uključujem kompjuter u struju, otvaram praznu stranicu]

Her

Milo ide na spavanje a živuljke me smaraju. Eva me uporno gleda razrokim očima, hoće nešto, kao i uvek, ali šta, to ni sama ne zna. U spektru je, ne zna lepo da traži. Kada mjauče zvuk je piskav i pre svega iritantan. Nerve gladi na pogrešnu stranu. Gandi, naprotiv, zna šta hoće: pažnju. No kod mene sada nema mesta ni za jednog ni za drugog. Moram da pišem.

J: Pustite me na miru vas dvoje, treba mi prostora.
E: …
G: Je l’ si sigurna?
J: Da!
G: Skroz sigurna?
J: Da!!
G: Ali ja bih da me neko mazi…
J: O Bože!
G: … … … [otklati se, pognute glave i povijenog repa]
[Eva ne mjauče ali se cinično smeška, obožava taj osećaj svoje nadmoći kada je Gandi unižen]
[Šaljem Gandija na terasu, možda uspe da pojuri nekog gavrana]

[Ponovo se usredsređujem na stranicu ispred sebe]

Now that I’m alone I notice Her, sitting there with arms crossed tight, quivering lips and the stare, trying to fight back tears or screams or both, I can never tell. She scared the shit out of me the first time I met her. I’d never laid eyes on such wrath except for Carletto’s, but he was harmless in comparison, because he did the graceful thing and let himself die. Not her. She hadn’t caught my presence at first, poor thing. Crouching over her famished limbs in the gloom, what remained of her dress ripped and filthy, strands of greasy hair dangling from her head. When she noticed me and looked up I felt horror. She was too much to take in, I couldn’t bear her, I fled. Over time it got easier. I would gradually manage to stay a little longer, to exchange a few words, to actually listen to what she had to say without panicking. I would bring her something clean and warm to wear, some food. I would comb her hair and hold her, sometimes silently, sometimes whispering reassuring things. She’d been abandoned for so long, I felt responsible. Over time her anger diminished and other, more tolerable emotions surfaced. Her pain, however, never left her. It never might. She obviously has trust issues, she is always on guard. We know each other quite well by now. Probably not well enough, though.

J: How long have you been there? You scared me!
H: Stop doing that.
J: Doing what?
H: Ignoring me, again.
J: …
H: I’ve been sitting here for at least a month and you barely noticed me.
J: I know. I am sorry.
H: …
J: You’re upset, I can see it.
H: I’ve been upset for a while.
[She lowers her head and softens up a bit]
H: I DON’T like it!
J: What?
H: Make them go AWAY!
[Now I lower my head]
J: You know that that isn’t the smart thing to do. It leads nowhere, we’ve tried it.
H: …
J: You’re triggered right now.
H: Of course I am triggered, what did you expect?! You drag me through this fucking mess and hope I’d just shut up? You know I have problems with certain things.
H: And I am NEVER EVER going back to that awful pit again, I swear!
J: Nobody is asking you to return to the pit.
H: You do, sometimes…
J: … … …
J: [ashamed] You are right. I still have to work on that. I am sorry.
H: See? It’s been a month and where was I for you?
J: [ashamedly curious] Have you been in the pit?
H: At times.
J: … how was it? … Bearable?
H: More than before, but I hate that place with my guts.
J: I’m not sure you can use that expression to define hate for a place…but in your case… might be justified…
J: At least now you can come and go…
H: At least.
H: You know what I also hate?
J: What?
H: When you are clingy.
J: I hate myself too when I’m clingy, believe me.
H: So why don’t you stop?
J: It’s not that easy.
H: You are weak.
J: …
H: If you hate something you do but do it anyway it means you are weak.
J: You’re probably right, it is a weak spot.
J: Fuck! There’s still so much we’ve got to work on, you and me…
J: Speaking of which, tell me, why are you starving yourself?
H: To not depend.
J: Ah.

She agrees to go to sleep, it is very late by now. I am not sure I’ll manage – too many thoughts – but I drift away quickly, without even noticing, which is a relief. Then, all of a sudden, the strange perception that you are here with us. Your presence is so real that the mattress sinks on your side. Eva meows. Your mood is not like ours. Playful and such, mercurially poking and spreading here and there, swiftly and lightly, amused. I can hear you, I can feel you. Maybe your dinner instilled you with all this effervescence, maybe it’s in your nature. Between alertness and slumber I’m not sure if it is her or me who pushes you away and tells you to go. It must be her. I wouldn’t do that.²

***

¹
R: Ooo! Tako je dobra, tako pažljiva! Ali ti to već sigurno znaš i bolje od mene.
B: Ne, danas sam je tek upoznao, ali znam da je dobra i posebna.
R: Kako se zoveš?
B: Brus, kao i malopre.
R: Ah, ja sam Rolf.
P: Ja sam Leo.

²
Sama sam, najzad, i pogled mi pada na nju, sedi iza ekrana ruku prekrštenih na grudima, usna joj drhti i zuri ispred sebe, izgleda kao da se suzdržava da ne zaplače, ili da ne zavrišti, ili oba, opet ne znam da protumačim. Užasnula me je pri prvom susretu. Nikada nisam nabasala na takav, toliki, bes – osim kod Karleta, ali u poređenju s ovom on je bio mala beba, na kraju je barem uradio nešto lepo napustivši život. Ali ne i ona. Trebalo joj je par sekundi da me primeti, sklupčana u polumraku, sa onim svojim kržljavim udovima, sa par dronja nečega što je nekada bilo haljina, pocepanih i štrokavih, bičevima masne kose što vise po čelu. Kada je podigla pogled kako bi me fiksirala – nepodnošljiv pogled – pobegla sam. Vremenom je postalo lakše. Malo po malo ostajala sam sve duže sa njom, razmenjivala po koju reč, odista je slušala a da me ne obuzme paničan strah. Donosila joj nešto čiste i tople odeće, malo hrane. Očešljala bih je, čvrsto zagrlila, tu u tišini, tamo šapućući reči nade. Toliko dugo je ostala sama, napuštena, osećala sam se odgovornom. Vremenom se njen bes stišao, propupile su druge emocije, snošljivije. Ipak, bol nikada nije minuo, biće tu zauvek. Očigledno ima problem sa poverenjem u ljude, uvek je na oprezu. Sada se već poznajemo, mada možda ne dovoljno dobro.

J: Od kad sediš tu? Prestravila si me!
O: Nemoj više to da radiš.
J: Šta da radim?
O: Da me ignorišeš, opet.
J: …
O: Ovde sam već barem mesec dana a jedva si me primetila.
J: Znam. Žao mi je.
O: …
J: Uznemirena si, vidim.
O: Već podugo sam uznemirena.
[Spušta pogled, malo smekša]
O: NE sviđa mi se!
J: Šta?
O: OTERAJ IH!
[Sad ja spuštam pogled]
J: Znaš šta ti je činiti. Ovo nije dobro za nas, već smo probale.
O: …
J: Isprovocirana si u ovom trenutku.
O: Naravno da sam isprovocirana, šta si uopšte očekivala?! Dovučeš me u ovaj haos a onda se nadaš da ću da trpim? Znaš da imam problem sa određenim stvarima.
O: I da znaš da se NIKAD VIŠE neću zavući u onu jezivu jamu, kunem se!
J: Niko ti i ne traži da se vratiš u jamu.
O: Ti mi ponekad tražiš…
J: … … …
J: [posramljeno] U pravu si. Moram da radim na tome. Žao mi je.
O: Vidiš? Prošlo je mesec dana a gde sam ja bila, šta misliš?
J: [bestidno radoznala] Bila si u jami?
O: Povremeno.
J: … Kako je bilo? … Podnošljivo?
O: Više no ranije, ali MRZIM to mesto.
J: Sad barem možeš da ideš, vraćaš se…
O: Barem.
O: Znaš šta još mrzim?
J: Šta?
O: Kada se prilepiš.
J: I ja mrzim samu sebe kada se lepim, veruj mi.
O: Pa što onda ne prekineš?
J: Nije lako.
O: Slaba si.
J: …
O: Ako ti se nešto ne sviđa a ti to svejedno radiš znači da si slabić.
J: Verovatno si u pravu, to je slaba tačka.
J: Jebote! Imamo još tako mnogo stvari da popravimo, ti i ja…
J: Kad smo već kod toga, de reci, zašto si prestala da jedeš?
O: Da ne bih bila zavisna.
J: Oh!

Posluša me i ode na spavanje, jako je kasno. Nisam sigurna da li ću uspeti da zaspim – previše misli – no u san padam a da i ne primetim, kakvo olakšanje. Iznenada me obuzima čudan osećaj da si ovde sa nama. Tvoje prisustvo je tako izvesno da se dušek ugiba na mestu gde sediš. Eva ponovo mjauče. Tvoje raspoloženje je poput našeg. Širiš se oko nas živo kao žíva, pecneš nas čas vamo čas tamo, lagan, hitar, razgaljen. Osećam te, srcem i čulima. Možda si od večere tako iskričav, a možda je tvoja priroda takva. Omamljena, ne shvatam da li sam te ja odgurnula i oterala, ili je to bila ona. Nisam ja takva, mora da je bila ona.