The Princess and the Penis

Written in English by Joanna Walsh

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News of the sex machine had not yet reached the castle, despite its being in the centre of the city. In addition to the king and, lately, the queen, in the castle there lived a princess who was always looking for a proper cock.

She was often texted pictures of cocks by her male acquaintances, but it was difficult for her to gauge what they might be like in the flesh. The screen on her phone was so small, and, besides, she was well aware that her male friends might be trying to impress her: after all she was a princess. All the cocks she was sent pointed straight up, some at a slight angle, and others with some kind of bend, either up towards the belly of the owner, which she liked, or over like a tap, which she liked less. Some were nicely rounded, and others had tactile facets like a stick of candy. But she had a feeling someone was playing a trick on her: how did they stand up without any help, which, she thought, was surely physically impossible? Due to the splendid isolation guaranteed her by her social position she had never she had never met a cock IRL and, as there was no WiFi in the palace, she had no opportunity to check the facts. […]

Joanna Walsh reads the whole story on Vimeo

Published July 12, 2017
© Readux Books

La principessa sul pisello

Written in English by Joanna Walsh


Tradotto in italiano da Vanni Bianconi

Sebbene il castello fosse situato in centro città, della sex machine non vi era ancora giunta notizia. Oltre al re e, fino a qualche tempo prima, alla regina, nel castello viveva una principessa sempre in cerca di un bel cazzo.

Riceveva spesso foto di cazzi, gliele spedivano sul cellulare le sue frequentazioni maschili, ma le era difficile valutare come sarebbero stati in carne ed ossa. Lo schermo del telefono era piccolo, e poi lo sapeva che i suoi amici stavano probabilmente cercando di impressionarla: dopotutto, era una principessa. Tutti i cazzi che riceveva puntavano in su, alcuni con una leggera inclinazione, e altri disegnando una specie di curva, o verso il ventre del proprietario, cosa che le piaceva, o in giù come un rubinetto, cosa che le piaceva meno. Alcuni erano gradevolmente arrotondati, altri avevano sfaccettature tattili. Ma non riusciva a levarsi l’impressione che qualcuno si stesse prendendo gioco di lei, perché come potevano stare su da soli in un modo che, si diceva la principessa, sfidava le leggi della fisica? Grazie allo splendido isolamento garantitole dal suo status sociale, un cazzo In Real Life non l’aveva mai visto, e siccome il palazzo era sprovvisto di wi-fi non aveva modo di fare le ricerche del caso.

Così aspettava il cazzo delle sue brame, ma neanche uno tra quelli delle foto sembrava calzante. Ne voleva uno che si infilasse come un guanto, o meglio come il dito di un guanto di cui faceva uso in attesa del cazzo giusto. Naturalmente, il guanto non era suo. Le serviva qualcosa di più virile, e di più estraneo del suo delicato dito medio. Il guanto era un guantaccio – di pelle scamosciata con le cuciture esterne – che qualcuno aveva lasciato in giro durante una visita al castello. Non riusciva a ricordare a chi appartenesse, ma era senz’altro il guanto di un uomo, e un giorno si mise in testa che se avesse trovato l’uomo in possesso dell’altro guanto, questi sarebbe stato provvisto del cazzo perfetto. Pubblicò un annuncio sul “Corriere del Castello”, ma nessun guanto spaiato si fece avanti.

Allora ebbe un’altra idea. Avrebbe invitato tutti i suoi amici maschi a lasciare che si trastullasse con i loro uccelli e, una volta trovato il favorito, sarebbe andata fino in fondo, forse perfino sposandolo, e conferendogli metà del suo regno. Per preservare l’anonimato necessario al fine di garantire imparzialità, diede l’ordine di impilare sul suo letto tutti i materassi di riserva del palazzo. Ogni notte lei si sarebbe coricata sul materasso più in alto, mentre il cazzo sarebbe stato infilato tra i due materassi più in basso. Stava cercando un cazzo che non passava inosservato, mai.

L’uomo in questione, si capisce, non avrebbe potuto rimanere attaccato al cazzo. Prima di tutto, il peso dei materassi avrebbero potuto soffocarlo. Poi, è di una principessa che stiamo parlando, che non poteva svelare al primo venuto cosa le piaceva fare a letto, o quello avrebbe prontamente sfornato una sex tape oppure venduto la storia a una rivista. Dunque, quando il tipo entrava in camera sua gli veniva chiesto di infilare il pisello sotto la lama della ghigliottina in miniatura che suo padre, il re, usava per decapitare i sigari. Trattandosi di una principessa, nessuno osò dissentire. Dopo di che, quasi tutti celarono il loro disappunto in nome del rispetto dovuto alla monarchia, a eccezione dell’ultimo pretendente, il quale decise che senza stava molto meglio e partì seduta stante per una battuta di caccia in una contrada dove, si diceva, le vagine vivevano ancora allo stato brado, sperando di accalappiarsene una per sé. I peni affrontavano l’avventura baldanzosamente eretti, ma una volta recisi si accasciavano presto. La principessa li ringalluzziva con carezze e bacetti e li infilava sotto il penultimo materasso. Ma una volta sistemati lì sotto i peni non le erano di grande utilità. I più perdevano la fermezza iniziale, puntavano tristemente nella direzione presa dai loro proprietari e, frignando sommessi, non le prestavano la benché minima attenzione.

Finché una notte un pene, quello appartenuto all’uomo che se ne era liberato felicemente, fece un buco e attraversò in linea retta tutti quanti i materassi fino a trovare lei, quindi le scivolò tra le gambe ed entrò. Dopo essersi dimenata per un po’, la principessa poté addormentarsi certa di avere trovato il bel cazzo che cercava da tanto.

Il mattino seguente quando si svegliò il cazzo era ancora al suo posto, così ripeterono tutto daccapo. Ma anche una volta che ebbero concluso il cazzo non sembrava volersene uscire, quindi la principessa si lavò e si vestì, scese a fare colazione, andò prima alla lezione di tennis e poi a quella di astrofisica. Scoprì che poteva andarsene in giro con il pene infilato dentro senza che nessuno se ne accorgesse. Solo di tanto in tanto il pisello si contorceva al punto da causarle uno spasmo, e lei doveva stringere forte le cosce per chetarlo.

Quel primo giorno la principessa trovò la nuova situazione alquanto soddisfacente. Lei disponeva di piacere sessuale a volontà, e il cazzo era felice di aver finalmente trovato una ragion d’essere – poiché il proprietario precedente gli badava ben poco. Però il giovedì dopo, mentre passeggiava nei giardini del palazzo, la principessa scoprì che il cazzo parlava. Non so cosa le abbia detto – non ero lì – ma doveva essere una gran minchiata. Lei lo zittì ma lui non volle saperne. Per fortuna si trovava nel mezzo di un vasto parterre e intorno non c’era nessuno, poi però sul sentiero che portava al Giardino delle Mille Rose apparve una duchessa e l’uccello urlò qualcosa di profondamente sconvenevole. La principessa tossì e si guardò attorno. Le parole non sembravano poter provenire da altri che da lei, e naturalmente non voleva che la si accusasse di comportarsi da cogliona. Lui gridò una cazzata ancora più grossa, e la duchessa si girò per vedere chi potesse profferire una cosa simile. Alla principessa non rimase che schiaffarsi la mano sulla vulva per soffocare il baccano mentre il cazzo si dimenava nello sforzo di farsi sentire.

Tornata nei suoi appartamenti chiese al pene di uscire, ma lui non obbedì. Lo lusingò, lo minacciò, lo strizzò con quanta forza aveva in corpo. Lo stuzzicò acquattandosi sopra pornografia artistica proveniente dai musei palatini, ma lui non faceva altro che strillare, T’inculo! più forte che poteva, e lei fu costretta a gettarsi a letto e coprirsi con alcuni dei suoi tanti materassi, per evitare che qualcuno li udisse.

L’uomo a cui il pene era appartenuto si trovava allora in un paese assai lontano. Il viaggio era stato lungo e pericoloso, aveva guadato fiumi, scalato montagne e volato con diverse compagnie aeree low cost che chiedevano cifre esorbitanti per bagagli in eccesso o un ritardo nel check-in. Ma ne era valsa la pena, perché qui vagine di ogni colore svolazzavano da un albero all’altro, sbattendo le delicate ali labiali sopra la sua testa mentre lui cercava di attirarle nel suo retino per farfalle. Aveva quasi catturato uno specimen succoso quando gli squillò il telefono. Era la principessa.

“Abbiamo un problema”, disse. “Il tuo pene fa solo minchiate”.

“La cosa non mi concerne più”, rispose lui. Poi la linea cadde e lui tornò ad andare a figa. Ne irretì una dai colori spettacolari che sfarfalleggiava su un fiore lì vicino. Se la schiaffò tra le gambe, dove in precedenza stava il suo cazzo. Lei tremò, batté le ali, ma rimase al suo posto. Per accertarsi che fosse davvero inserita, lui si succhiò un dito e lo ficcò dolcemente nel centro della figa e scoprì che, sì, lei cedeva morbida finché il dito passò davvero attraverso le ali aperte fin dentro al suo corpo. La figa era già bagnata, per il miele che aveva trasportato.

La principessa si chiuse in camera e si rifiutò di vedere chicchessia. I familiari, com’è ovvio, erano in pensiero. Dopo la scomparsa della regina e tutte quelle chiacchiere sulla sfilza di nuove amanti del re, proprio non lo volevano un nuovo scandalo. Offrirono, con gran discrezione, un’enorme ricompensa a chi sarebbe riuscito a scoprire il motivo della reclusione della principessa, e a curarla dal suo desiderio di solitudine, ma dopo i fatti della ghigliottina dei peni furono in pochi a offrirsi volontari, e quelli che lo fecero non brillavano certo per intelligenza. La principessa decise di richiamare il proprietario del cazzo.

Lui rispose mentre usciva dal mare. Si era spostato dalla foresta alla costa per dedicarsi alla caccia subacquea alle tette. In quelle acque pulsava, semitrasparente, ogni tipo di tetta. Stava camminando nudo sulla spiaggia, una appiccicata su ogni seno. Non gli ci volle molto per insegnare loro a stare quiete, e gli si strinsero al petto grazie alla loro forza di suzione. Baluginavano e anche fuori dall’acqua avevano un che di traslucido, levandosi e abbassandosi gentilmente come se solo il suo cuore battesse in loro (come di fatto era, poiché le tette, come le meduse a cui tanto assomigliano, sono senza cuore).

“Il tuo pene è a briglia sciolta”, disse la principessa. “Insisto che torni subito a riprendertelo”.
“Ma io non lo voglio”, disse l’uomo che adesso era, a tutti gli effetti, una donna.
“È il tuo. Puoi farci quel che vuoi, basta che lo tiri fuori da me”, disse la principessa.

L’uomo, che ora si chiamava Linda, sospirò, e acconsentì. Dopo tutto, era in debito con la principessa. Era lei che l’aveva instradato sulla via della trasformazione.

Prese il primo aereo.

La principessa invitò Linda in camera da letto. Chiamarono il pene, ma questi si limitava a gridare, “’Sto cazzo!” Però quando si accorse di Linda e – attraverso i suoi vestiti, come sanno fare i cazzi – intuì la sua grande figa variopinta, e i suoi seni che, solo leggermente gelatinosi, luccicavano delicati, cambiò disco. “Ehi pupa”, disse, “giochiamo al superanalotto: tu fai il sorcheggio e io ti fotto”. Era chiaro che il pene non riconosceva più il suo proprietario. “Ehi baby, sai perché l’osso sacro si chiama così? Perché assiste alla messa in culo. E io sto per farti santa”, sbraitava. Linda si rese conto che il suo ex cazzo poteva rappresentare un problema. Le venne un’idea. Chiese alla principessa di spogliarsi e premere il corpo contro il suo. Schiuse con cura le labbra della sua fica farfalla e la premette contro la cavità da cui avanzava un pezzettino di cazzo. Linda chiese alla principessa di stringersi più forte a lei, quindi la principessa spalancò le gambe e gliele strinse attorno ai fianchi. Il doppio clitoride-antenna in cima alla fica farfalla di Linda fece presa sul clitoride singolo della principessa fino a che questo si tese e le labbra della sua figa si gonfiarono, e si bagnarono, e si allargarono, e quando ella venne il cazzo scivolò fuori dalla principessa dritto nella figa del suo proprietario di un tempo. Finì così in profondità che la sua voce tutta soffocata non poteva più mettere in imbarazzo nessuno.

Così Linda riscosse una favolosa ricompensa presso la tesoreria reale, e la principessa non fu più mortificata ogni qualvolta si trovava ad assolvere a un compito pubblico. Ma il cazzo non voleva uscirsene da Linda, che non poté utilizzare la sua nuova figa con nessuno se non questo rimasuglio del suo vecchio sé. E la principessa, capita l’antifona, tornò ad adoperare il suo vecchio guantaccio di pelle, finché non si fece rigido e lucido, e scurito dall’uso.

Published July 12, 2017
© Readux Books
© 2017 Vanni Bianconi

La princesa y el pene

Written in English by Joanna Walsh


Traducido al español por Fernando Sdrigotti

A pesar de que estaba en el centro de la ciudad, las noticias sobre la invención de las máquinas sexuales no habían llegado aún al castillo. Además del rey, y hasta hacía un tiempo la reina, allí vivía una princesa que estaba siempre buscando un verga de verdad.

Sus conocidos frecuentemente le enviaban imágenes de vergas por mensaje de texto, pero a ella le resultaba difícil imaginárselas en carne propia. La pantalla de su teléfono era muy pequeña. Y además sabía muy bien que sus amigos podían estar tratando de impresionarla: era, después de todo, una princesa. Todas las vergas que le enviaban apuntaban hacia arriba, algunas en ángulo, otras con una marcada curva — algunas hacia el vientre del dueño, algo que a ella le gustaba, y otras hacía abajo como una canilla, algo que le gustaba menos. Algunas tenían un acabado redondeado y agradable y otras tenían un aspecto texturado y táctil. Pero ella tenía la sensación de que alguien le estaba tomando el pelo: ¿cómo podían sostenerse erguidas, sin ayuda alguna? Esto le parecía físicamente imposible. Debido a su aislamiento, garantizado por su posición social, nunca había visto una verga en la vida real.  Y como en el palacio no había wifi, nunca había tenido la oportunidad de verificar ninguna de sus conjeturas al respecto.

La princesa ansiaba una verga verdadera, pero ninguna de las que aparecían en las fotos la convencía. Quería una que le quedara justa, como un guante. O mejor dicho como el dedo del guante que usaba mientras esperaba la llegada de la verga. No era su guante, naturalmente. Ella anhelaba algo más masculino, menos familiar que su delicado dedo del medio. El guante —que alguien había olvidado en el palacio alguna vez, durante alguna visita— era rugoso, de gamuza y con costuras estriadas. Ella no recordaba de quién era, pero era definitivamente un guante de hombre, y un día se le ocurrió que de poder encontrar al hombre que tenía el otro guante seguramente encontraría una verga a medida. Puso un aviso en el Castle Times pero ningún guante adecuado se presentó.

Entretanto tuvo una idea. Invitaría a todos sus amigos para que la dejen jugar con sus vergas, y al encontrar una que realmente le gustara se daría por completo, y también posiblemente se casaría y entregaría la mitad de su reino. Para garantizar una imparcialidad anónima ordenó que todos los colchones libres del palacio se apilaran sobre su cama. Cada noche se acostaría sobre el colchón superior, con la verga colocada a modo de sandwich entre los dos del fondo. Buscaba una verga que pudiera hacerse sentir más allá de las circunstancias.

Por supuesto que el hombre en cuestión no debía estar conectado a la verga. En primer lugar, era posible que el pobre se sofocara bajo el peso de los colchones. En segundo lugar, ella era una princesa, y no era correcto que cualquiera supiera qué hacía en la cama. Y no fuera que acabara en una porno y vendieran su historia a las revistas. En cambio, cuando un candidato visitaba su cuarto ella traía la mini guillotina que su padre usaba para decapitar cigarros y lo obligaba a poner la verga debajo de la cuchilla. Como era una princesa ninguno se atrevió a negarse. Después, casi todos escondieron su sufrimiento por respeto a la realeza. Excepto el último, quien se dio cuenta de que la vida sería mejor sin verga, y partió inmediatamente en una expedición a un país lejano, donde había escuchado que las vaginas aún andaban al aire libre — tenía esperanzas de cazar una. Una vez removidos, los penes que habían comenzado sus aventuras tan erectos y esperanzados se marchitaban un poco. La princesa los revivía con caricias y besos antes de esconderlos debajo del colchón del fondo. Pero una vez debajo de su pila de colchones los penes tenían poca utilidad para la princesa. Casi todos perdían su firmeza, se quedaban apuntando tristemente en la dirección en la que sus dueños habían salido, y quejándose débilmente demostraban poco interés por ella.

Hasta que una noche, el pene que pertenecía al hombre que ahora estaba feliz de habérselo quitado de encima consiguió hacer un agujero a través de todos los colchones, encontró a la princesa, y se metió entre sus piernas. Y luego de algunas sacudidas ella se fue a dormir, sabiendo que era esta, definitivamente, la verga que había estado esperando.

Cuando se despertó la mañana siguiente, todavía la tenía metida, así que repitieron todo de nuevo. Cuando terminaron, la verga no parecía querer salir, así que la princesa se duchó y se vistió, bajó a desayunar, y luego fue a su clase de tenis, y sus lecciones de astrofísica. Se dio cuenta de que podía caminar con el pene encajado, todo el tiempo, y que nadie se daba cuenta. Solo ocasionalmente el pene se retorcía tanto que a ella le daba un espasmo. Entonces tenía que apretar sus piernas, una contra la otra, para calmarlo.

Durante los primeros días la princesa estaba feliz con la situación. Tenía placer a voluntad, y la verga estaba encantada de haber encontrado algo que hacer, ya que su dueño anterior le había prestado poca atención. Pero el jueves siguiente la princesa estaba caminando por el jardín del palacio, con el pene metido firmemente en su lugar, cuando se dio cuenta de que era una verga habladora. No sé qué dijo —yo no estaba allí— pero fue alguna huevada. Ella chistó, pero la verga no se callaba. Afortunadamente estaba en el medio de un enorme parterre y no había nadie alrededor, hasta que la duquesa pasó camino al Jardín de las Mil Rosas, y la verga le gritó algo bien desubicado. La princesa tosió, y miró alrededor. No había ninguna fuente aparente para las palabras, excepto ella, y naturalmente no quería ser acusada de actuar como una idiota. La verga gritó algo incluso peor y la duquesa se dio vuelta para ver quién podría haber dicho tal barbaridad. Lo único que la princesa pudo hacer fue palmear su vulva mientras que la verga se retorcía adentro, intentando hacerse oír.

Una vez de regreso a su ala del palacio, la princesa le pidió al pene que saliera, pero el pene se negó. La princesa aduló, amenazó, y estrujó lo más fuerte que pudo. Lo tentó agachándose sobre un desnudo al óleo, traído de la Galería de Arte Real, pero lo único que la verga hacía era gritar “¡que te den por el culo!” a todo volumen, hasta que la princesa tuvo que meterse en la cama y taparse con varios de sus muchos colchones, para evitar que alguien oyera los gritos.

El hombre a quien el pene había pertenecido estaba, en ese momento, en un país muy lejano. Durante su odisea había sorteado muchos peligros, cruzado ríos, escalado montañas, y viajado por varias aerolíneas de bajo costo, que le habían cobrado de más por el equipaje y por dejar el check-in para el último momento. Pero todo había valido la pena, ya que allí vaginas de todos los colores saltaban de árbol en árbol, aleteando sus delicados labios sobre su cabeza, mientras que él intentaba tentarlas dentro de su red de mariposas. Estaba a punto de atrapar un jugoso espécimen cuando sonó su teléfono: era la princesa.

—Tengo un problema —dijo—. Tu pene se está portando como el culo.

—No tengo más nada que ver con eso —dijo el hombre. Y después la llamada se cayó y él volvió a perseguir vaginas. Atrapó una concha de colores espectaculares, que estaba sobrevolando una flor. La encastró entre sus piernas, donde antes había tenido una verga. La concha tembló y aleteó, pero rápido se aclimató a su nuevo hogar. Para ver si se había encajado de verdad, el hombre se chupó un dedo y lo metió en el medio del centro. Y ahí se dio cuenta de que sí, de que la concha —húmeda por la miel que había estado llevando— se rendía suavemente, hasta que su dedo atravesaba las alas, hasta que pudo tocar su propio cuerpo.

La princesa se encerró en su habitación y no quería ver a nadie. Su familia, naturalmente, se preocupó. Después de la desaparición de la reina, y del escándalo de todas las nuevas novias del rey, nadie quería otro escándalo real. Ofrecieron, discretamente, una recompensa para quien pudiera descubrir la razón detrás del encierro de la princesa, para quien pudiera así curarla de su soledad. Pero luego del incidente de la mini-guillotina, aparecieron pocos voluntarios. Y aquellos que aparecieron —obviamente— no eran muy inteligentes. La princesa decidió llamar al dueño de la verga nuevamente.

Él atendió la llamada mientras salía del mar. Había viajado desde los bosques hasta la costa, donde había estado buceando, capturando tetas entre las tetas de todas las variedades que palpitaban, casi transparentes, por el agua del lugar. Salió desnudo del océano, con dos tetas sobre su pecho. Apenas en un rato les había enseñado a quedarse quietas y ahora permanecían succionadas en su lugar. Brillaban y preservaban una cierta transparencia, incluso en tierra firme. Se elevaban y contraían gentilmente, como si solamente el corazón de su dueño latiera. (Y este era el caso, ya que las tetas, como sus primas lejanas las medusas, no tienen corazón).

—Su verga es impresentable —dijo la princesa—. Insisto en que venga a buscarla ahora mismo.
—Pero es que no la quiero —dijo el hombre, quien era ahora, bajo cualquier punto de vista, una mujer.
—Es suya. Puede hacer con ella lo que quiera, mientras que me la saque de adentro —dijo la princesa.

El hombre, que ahora se llamaba Linda, suspiró y acabó por aceptar. Después de todo le debía un favor a la princesa: era la princesa quien lo había lanzado en su proceso de transformación.

Se tomó el próximo avión de regreso.

La princesa invitó a Linda a entrar a su cuarto. Llamaron al pene, a ver si salía, pero lo único que hacía era gritar “¡los huevos!”. Cuando se dio cuenta de la presencia de Linda y sintió —a través de la ropa, como buena verga— la gran y colorida concha y sus delicados, trémulos, y apenas gelatinosos pechos, ahí cambió de actitud. “Hola, nena,” dijo, “juguemos al piano. Tú eres la tecla y yo te clavo.” El pene, claramente, ya no reconocía a su dueño. “¿Sabías que el cuerpo humano tiene 206 huesos? ¡Encantado de llenarte la panza con 206 más!” gritó. Linda pudo ver como su ex-verga podía llegar a ser un problema. Tuvo una idea: le pidió a la princesa que se desnudara y presionara su cuerpo contra ella. Linda abrió su delicada concha de mariposa y la presionó contra la abertura de la otra, donde apenas era posible ver a la verga asomándose desde el fondo. Linda le pidió a la princesa que se apretara contra ella fuerte y más fuerte, hasta que la princesa terminó enredándole sus piernas alrededor de la cintura. La doble antena-clítoris de la concha-mariposa de Linda abrazó al clítoris único de la princesa, hasta que este se irguió y la concha se hinchó y humectó, y se abrió, y cuando llegó al orgasmo la verga salió disparada y terminó metida dentro de la concha de su antiguo dueño. Tan adentro terminó que la voz quedó asordinada y ya no causó más vergüenza a nadie.

Entonces Linda recogió la fabulosa recompensa del tesorero real, y la princesa ya no se sintió mortificada durante sus compromisos públicos. Pero la verga no quiso salir más de Linda, quien no pudo usar su nueva concha con nadie, excepto con este vestigio de su antiguo ser. Y la princesa, con pies de plomo, volvió a usar su viejo guante de piel, hasta que quedó duro y brillante y oscurecido por el uso.

Published July 12, 2017
© Readux Books
© 2017 Specimen

An bod agus an banphrionsa

Written in English by Joanna Walsh


Translated into Irish Gaelic by Caitlín Nic Íomhair

Ní raibh iomrá ar bith ar scéal an innill ghnéis fán chaisleán go fóill, ainneoin é a bheith i lár na cathrach. Anuas ar an rí agus, le deireanas, an ríon, bhí banphrionsa ina cónaí sa chaisleán a bhí de shíor sa tóir ar bhod a diongbhála.

B’iomaí sin bodphic a chuireadh a cairde fireanna chuici, ach ba dhoiligh di a thuar cén cruth nó cén chuma a bheadh orthu sa bheo. Bhí scáileán a gutháin chomh beag sin, agus thairis sin thuig sí go mb’fhéidir go mbeadh na fir seo ag iarraidh dul i gcion uirthi – banphrionsa a bhí inti tar éis an tsaoil. Bhíodh an uile shlat a cuireadh chuici ina seasamh go hadharcach, cuid acu cam, cuid acu ar fiar i dtreo bholg an úinéara, rud a thaitin léi, nó i leataobh mar a bheadh sconna, rud nár thaitin an oiread sin léi. Bhí cuar deas ar chuid acu agus ba gheall le slat chrua candy cane cuid eile. Ach ba dhóigh léi go raibh duine inteacht ag bualadh bob uirthi. Cad é mar bhí siad ábalta seasamh ina n-aonair gan cuidiú ar bith – rud nach raibh indéanta de réir réasúin? A bhuí leis an uaigneas críochnúil ba dhual dá céim, níor casadh a macasamhail uirthi riamh sa bheo agus, de bhrí nach raibh leathanbhanda ar bith sa chaisleán, ní raibh gléas uirthi na fíricí a dhearbhú di féin.

Ag fanacht ar phlúr na mbod a bhí sí, ach ba dhóigh léi nár óir ceann ar bith acu siúd a cuireadh chuici mar bhodphic. An rud a bhí uaithi ná slat a raibh a tomhas go beacht ann, mar a luíodh miotóg ar mhéar. Méar miotóige, le bheith níos beaichte, a bhí ar aon dul leis an mhéar mhiotóige a tharraing sí chuici féin mar ionadaí in am an ghátair agus í ag fanacht go crua ar an lá a dtiocfadh an bod buacach. Níor léise an lámhainn, gan amhras. Bhí rud ní ba fhearúla, ní ba aistí de dhíth uirthi ná a méirín bheag mhaorga féin. Ba lámhainn gharbh de dhéantús svaeid a bhí mar ionadaí aici, le huaim ghrágach ar nós iomaire ar an taobh amuigh. Leathlámhainn a d’fhág duine inteacht ina dhiaidh tar éis cuairte. Níor chuimhin léi cér leis í, ach fear a bhí ann go cinnte, agus rith sé léi lá go mbeadh bod a brionglóidí ag an té ar leis í, dá bhfaigheadh sí teacht air. Chuir sí fógra sa Castle Times, ach freagra ní bhfuair sí.

Idir an dá linn, rith sé léi go dtiocfadh léi cuireadh a thabhairt dá cairde fireanna uilig. Rachadh sise i mbun súgraithe agus i mbun scrúduithe agus nuair a thiocfadh sí ar a rogha slaite, dhéanfaidís an beart. Seans, fiú, go bpósfadh sí é mar shlat agus go mbronnfadh sí leath a ríochta air. Níor mhór na fir a bheith anaithnid chun cothrom na féinne a chinntiú, mar sin d’ordaigh sí go mbaileofaí achan uile thocht bhreise sa chaisleán agus go gcarnfaí ar a leaba féin iad.  Oíche i ndiaidh oíche, luíodh sí ar bharr an tochta mhullaigh agus bheadh bod teanntaithe idir an dá thocht ab ísle. Bhí sí sa tóir ar shlat a chuirfeadh é féin in iúl beag beann ar chomhthéacs.

Ar ndóigh, níor cheart go mbeadh an fear féin i láthair. Ar an chéad dul síos, bhí an baol ann go bplúchfaí é faoi mheacan na dtochtanna uile. Rud eile de, ba bhanphrionsa í agus ní bheadh sé ceart ná cóir go mbeadh a fhios ag madraí an bhaile faoina nósanna collaí. Samhlaigh dá ndíolfadh duine a scéal le hiris inteacht nó – dia ár sábháil – í a thaifeadadh. Ina ionad sin uilig, nuair a thagadh fear chuig a seomra, bhaineadh sí leas as an ghilitín beag a d’úsáid a hathair agus é ag iarraidh todóg a dhícheannadh. Deireadh sí leis an fhear a shlat a chur faoin scian agus, ós rud é gur banphrionsa í, níor leomh éinne acu diúltú di. Ba ghnáth leis an chuid is mó acu a gcrá a cheilt, de theann measa ar an ríogacht. Eisceacht a bhí sa duine deireanach, a chinn láithreach gurbh fhearr i bhfad leis a bheith saor ón sáiteán suarach cibé ar bith. D’imigh se leis ar chosa in airde ar thuras seilge chuig tír a ndúradh ina leith go mbíodh piteanna ag síolrú san fhiántas ann, agus gach súil aige ceann acu a sciobadh dó féin. Agus iad bainte, níorbh fhada gur tháinig cuma na maolchluaise ar na boid a bhí chomh gustalach sin ag an tús. Bhíodh ar an bhanphrionsa iad a tharrtháil le muirniú agus le pógadh sula chuireadh sí faoin tocht íochtarach iad. Ach mo léan, ní raibh mórán maitheasa iontu agus iad faoin tocht. Ba ghnách leo a righne a chailleadh agus amharc i dtreo a n-úinéara go brónach, ag geonaíl agus ag tabhairt neamhairde ar an bhanphrionsa.

Sa deireadh thiar tháinig seal shlat an fhir a bhí sásta é a chailleadh. Pholl sé agus pholl sé tríd na tochtanna uilig go léir gur aimsigh sé an banprionsa, agus isteach leis idir a cosa gur bhain ceann scríbe amach. Thug sé gach aon ghreadadh agus leadradh di go dtí gur tháinig néal uirthi agus a fhios aici go raibh toilfhéith a tola aimsithe aici faoi dheoidh.

Bhí sé mar a fágadh é nuair a dhúisigh an banphrionsa an lá dar gcionn. Rinne siad an beart arís. Agus sin déanta, ba leasc leis an bhod teacht amach arís, mar sin rinne sí í féin a fholcadh is a ghléasadh is d’ith sí a bricfeasta, agus d’fhreastail ar chúrsa leadóige agus rang réaltfhisice agus níor thuig éinne go raibh an bod go fóill go cluthar istigh inti. Bhí sí in ann siúl mar is ghnáth don chuid is mó, ach anois is arís bhíodh sé ag bogadaí barraíocht agus b’éigean di a cosa a fháisceadh le chéile lena suaimhniú.

Ar feadh an chéad cupla lá bhí an banphrions breá sásta leis an socrú. Bhí pléisiúir collaí ar fáil nuair ba mhian léi, agus bhí áthas ar an bhod go raibh feidhm leis faoi dheireadh, nó is beag aird a thug a sheanúinéir air. Ach an Déardaoin ina dhiaidh sin, bhí an banphrionsa ag siúl sa ghairdín agus an bod teanntaithe inti nuair a tháinig sé chun solais nach bod balbh a bhí ann. Níl a fhios agam cad é a dúirt sé – ní raibh mé ann –  ach rud bodmánta a bhí ann. Rinne sí iarracht é a chur ina thost ach ní thostadh sé. Ar an dea-uair ba i lár parterre ollmhór a bhí sí agus gan aon duine thart, go dtí gur shiúil an duchess thar bhráid ar a bealach go Gairdín na Rós. Cad é a rinne an tslat ach scairt ghraosta. Lig an banphrionsa casacht agus d’amharc sí timpeall amhail is go raibh sí ag cuardach an chiontóra. Ní raibh duine ar bith eile thart agus, gan amhras, níorbh áil léi go gceapfaí gur bodóinseach í. Scairt an bod rud inteacht ní ba bhodúla fós agus thiontaigh an bandiúc athuair le feiceáil cé a déarfadh a leitheid. Níorbh fhéidir leis an bhanphrionsa ach a lámh a fháisceadh thar a clais leis an fhuaim a thostú fad is a bhí an bod ag corraí inti ag iarraidh go gcluinfí é.

Agus í ar ais ina cuid féin den chaisleán, d’iarr sí ar an tslat teacht amach, agus dhiúltaigh sé. Thriall sí achan rud: béal bán agus bréagnú, bagairtí, beasnaíocht… Rinne sí iarracht é a mhealladh le híomhánna tíriúla ón dánlann ríoga, ach ní raibh d ’fhreagra ag an bhod ach ‘fuck you!’ in ard a chinn is a ghutha, go dtí gurbh éigean di dul i bhfolach faoi na tochtanna ar eagla go gcluinfí é.

Idir an dá linn bhí úinéir na slaite thar lear i bhfad ón bhod agus ón bhanphrionsa. B’iomaí sin dúshlán agus contúirt a casadh air ar a shlí: taoidí tulcacha, sléibhte sceilgeacha, agus eitiltí le budget airlines a ghearr fíneáil bhreise air as a mhalaí. Ach b’fhiú an t-anró é nó b’eod é ina staic le heangach ina láimh ag iarraidh breith ar phit de na piteanna raidhsiúla ildaite a bhí ag eitilt ó chrann go crann, slapar ag a sciatháin chaoine os a chionn. Bhí sé díreach ar tí pit súmhar solamhar acu a ghabháil nuair a bhuail a ghuthán. An banphrionsa a bhí ann.

“Tá fadhb agam” arsa sí. “Tá do smachtín as smacht”.

“Níl baint ná páirt agamsa leis sin a thuilleadh” ar seisean. Agus leis sin, bhris an líne agus chrom sé athuair ar a iarrachtaí. Sa deireadh ghabh sé gráta galánta gealánach a bhí ar foluain os cionn blátha. Leag sé caol díreach ar a ghabhal é agus, cé gur chreath an geidimín, d’fhán sé. Phollaigh sé é lena mhéar le cinntiú go raibh sé fáiscthe mar is ceart agus ghéill an gráta dó go dtí gur bhraith sé na méara mealaithe ina chorp féin.

Bhí an banphrionsa ar a coimhéad ina seomra agus dhiúltaigh sí glacadh le cuarteoirí. Cúis imní a bhí sa mhéid sin dá muintir, ní nach ionadh. Níor theastaigh scannal eile uathu théis don bhanríon imeacht as radharc go tobann, agus an rirá uilig faoi leannáin an rí. Thug siad le fios go hindíreach go dtabharfaí duais mhór mhillteach don té a bhí in ann cúlráideacht an bhanphrionsa a mhíniú agus a leigheas. Ní nach ionadh théis an bhascadh boid ar fad, níor tháinig mórán chun cinn le cuidiú seachas an corr-bhómán. Chinn an banphrionsa go nglaofadh sí ar úinéir an diúlaigh uair amháin eile.

D’fheagair sé agus é ag teacht ón tsáile. Thaisteal sé ón choill go dtí an cósta, mar a raibh sé ag seilg na gcíoch a bhí ag snámh fríd an uisce. Shiúil sé leis ón uisce, cíoch fáiscthe le dá thaobh a bhrollaigh. Ní raibh sé i bhfad gur luigh siad air go socair solasmhar, ag ardú agus ag ísliú le bualadh a chroí (níl croí ar bith ag cíocha, ach oiread leis na smugairle róin a bhfuil oiread dealraimh acu leo).

‘Tá do mheámar mioscaiseach agus ní mór duit teacht lena bhailiú láithreach.”
“Ach níl sé uaim” arsa an fear, ar bhean anois é, ionann is.
“is leatsa é. Déan do rogha ruda leis ach coinnigh ar shiúl uaimse é” arsa an banphrionsa.

Lig an fear, arb ainm dó Linda anois, lig sé osna agus d’aontaigh sé. Bhí gar ag dul don bhanphrionsa, tar éis an tsaoil, nó ba í a chuir ar bhealach an chlaochlaithe é an chéad lá.

Bhuail sé bóthar láithreach.

Agus é i seomra Linda, rinne siad beirt iarracht an tslat a mhealladh amach, ach ní bhfuair siad de fhreagra ach ‘buinneach!’. Ach ansin bhraith sé le hinstinn an bhoid go raibh gráta gar dó, agus cíocha geala glóthacha fosta. D’athraigh sé a phort láithreach mar bhod. ‘Goitse a chuid, cad tuige nach n-imríonn muid strip poker? Déan tusa an strippeáil agus déanfaidh mise an pocáil…”
Is léir nár aithin an tslat Linda. ‘An raibh a fhios agat, a rún, go bhfuil 206 cnámh i gcorp an duine… agus tá ceann breise agamsa duit!” Ba léir anois do Linda go raibh a toilfhéith trioblóideach. Rith smaoineamh léi. D’iarr sí ar an bhanphrionsa baint dí agus a colainn a fháisceadh le colainn Linda. Ansin spréigh sí beola a gráta go cúramach agus chuimil é leis an phit a raibh an tslat ag gobadh aisti, ar éigean. Lean siad orthu ag fáisceadh is ag teanntú, cosa an bhanphrionsa sínte thar chom Linda. Chuimil brillín dúbailte Linda brillín aonair an bhanphrionsa go dtí gur sheas brillín an bhanphrionsa mar a bheadh adharc. D’at agus d’oscail agus d’fhliuch beola a pite agus nuair a tháinig sí, shleamhnaigh an bod amach aisti agus isteach go díreach i ngráta a sheanúinéara. Bhí sé teanntaithe chomh domhain sin istigh inti nach bhféadfaí a ghuth a chluinstin mar is ceart, mar sin níor díol náire é do dhuine ar bith arís.

Bhailigh Linda an éiric iontach ón chíste ríoga, agus bhí an banphrionsa in ann a cúraimí a chur i gcrích gan scáth gan náire. Ní bhogfadh an bod, áfach, rud a d’fhág nach raibh Linda in ann suirí le duine ar bith eile agus gurbh éigean di cúis a dhéanamh leis an iarsma seo óna seansaol. Agus a ciall ceannaithe go daor aici, phill an banphrionsa ar an tseanlámhainn leathair nó gur éirigh sí righin agus snasta agus dorchaithe le haois.

Published July 12, 2017
© Readux Books
© 2017 Specime


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