Varietà e oscurità delle espressioni umane: Oltre Babele, il tempo

Written in Italian by Nunzio La Fauci

| A specimen of Babel: Stories on the loss of the earth’s one speech and the confusion of languages

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Quando si pensa alla varietà linguistica, la mente corre facilmente a Babele e a tutto ciò che in proposito è stato detto e scritto in migliaia di anni. Babele è il nome di un luogo, come si sa. Per metonimia, tale toponimo è passato a designare un evento: la confusione delle lingue, il catastrofico trascorrere degli esseri umani dall’unità alla molteplicità espressiva. Ma un evento siffatto si è mai prodotto? Nessuno può affermarlo, ovviamente. Babele è fuori non solo della storia, ma anche del tempo. Comunque sia, chi scrive queste righe è tra coloro che quando immaginano Babele, immaginano, per l’umanità, un luogo e un momento non di punizione, di danno e di condanna, ma di dono di un’opportunità, di elargizione di una risorsa, di liberazione da una costrizione, di apertura verso la libertà. Certo, ad alto prezzo. Ma c’è cosa di valore che costi poco? Qualunque costo abbia avuto Babele, per gli esseri umani ne è valsa la pena.

A dire il perché, si può cominciare da ciò che parrebbe pure poco importante ed invece lo è, oltremodo. “Variatio delectat”, ‘la varietà è piacevole’: lo diceva proverbialmente tanto tempo fa una civiltà che s’era peraltro pensata come universale, quanto alla sua espressione. Sottile contraddizione, ma contraddirsi, per le civiltà, non guasta. Senza Babele, non ci sarebbe stata varietà, per l’espressione, e sarebbe mancato il correlato diletto.

A testimonianza e supporto di un’affermazione umana di pertinenza e di solidarietà, sarebbe mancata, conseguentemente, l’eventualità della traduzione. Con ciò, avrebbe fatto difetto una vasta area del possibile. E, senza il possibile, spazio ideale in cui lanciarsi temerariamente e all’avventura, che ne sarebbe di ciò che è specificamente umano?

Chi traduce scende in campo contro Babele. Ingaggia una battaglia. Così facendo ha però già accettato Babele. Con ragionevolezza, si è arreso all’ineluttabile e, data Babele, la diversità dell’espressione umana ha l’aria d’essere ineluttabile. Poco importa, di nuovo, se una ragionevolezza siffatta sembra contenere di nuovo una sottile contraddizione: approssimare alla mutua comprensione ciò che per definizione è mutuamente incomprensibile. La battaglia di chi traduce non sarà mai vinta ed è perciò tra quelle che vale moralmente la pena di combattere. Scendere in campo sicuri di vincere è infatti ignobile soverchieria. Malgrado possa parere il contrario, tradurre è quindi rendere omaggio alla varietà babelica. È capitolare davanti a essa nel momento stesso in cui si prova a porvi rimedio: è riparazione misericordiosa e atto di commendevole rassegnazione.

Ed è tradimento. Quando è questione di varietà, di ogni tipo di varietà, è sempre questione di tradimento. Poche cose sono più noiose della fedeltà, come sa chi traduce con coscienza, e intende che la virtù da perseguire non è la fedeltà ma la costanza, qualità che non scapita, anzi, il contrario, per le intermittenze eventuali della fedeltà. “Traduttore, traditore”, dice il motto italiano, esso stesso intraducibile in altre lingue. In conclusione di un celebre saggio dedicato alla traduzione, lo ricordò Roman Jakobson, traduttore egli stesso, nel senso più ampio, di complesse esperienze culturali e, in correlazione, campione di varietà espressiva. Traditore, quindi.

Senza Babele, agli esseri umani sarebbe toccato allora solo un modo di esprimersi, in un mondo monolingue. Lo si dica con chiarezza, passando a temi più gravi del diletto e del piacere: un mondo monolingue è il sogno di tutti i totalitarismi, comunque mascherati, e l’incubo di chi ritiene la libertà, per gli esseri umani, una condizione irrinunciabile di vita. Oggi più che mai, un mondo monolingue è il sogno del totalitarismo strisciante che caratterizza questo momento della storia: anche del velleitario totalitarismo di accostamenti alla cui pretesa di autentica scientificità, proprio per tale ragione, si fatica a prestare fede quando le si vede dilagare nel campo di ciò che, come la lingua, è umano.

Non intendere immediatamente, faticare, e molto, per intendere, ammesso che ci si riesca, diventano occasioni per riflettere, per ponderare, per non correre verso facili generalizzazioni. Le facili e veloci generalizzazioni appartengono al tipo più pericoloso di fraintendimento. Sono in effetti fraintendimenti molto efficaci ed efficienti, adattissimi allo spirito grossolano dei pigri addetti a una sorta di “fast science”. A questa, non per un esoterismo scioccamente elitario ma per la cautela che si accompagna alla saggezza, va contrapposta l’attitudine di cui, or sono più di due millenni, Eschilo dotò la voce che apriva il suo “Agamennone”: “Io con chi sa favello volentier: tutto con gl’ignari oblio” (l’italiano è di Ettore Romagnoli).

Incontrare il difficilmente comprensibile, accettare la possibilità dell’incomprensibile (momentaneo? permanente?), non con rassegnata acquiescenza, ma dopo una battaglia che si capisce di avere eventualmente persa, sono invece occasioni per intendere che non c’è solo un modo di prospettare le cose. Non solo: sono occasioni per capire che cose e modi di prospettarle interagiscono e sono facce di una continua relazione. Secondo un’acuta osservazione che si deve ancora una volta a Jakobson, le lingue differiscono non tanto per ciò che possono dire, quanto per ciò che devono dire. Altrettanto fanno le meta-lingue, cioè le lingue con cui ci si avventura nella descrizione delle lingue. Adottarne una al posto di un’altra non è mai un gesto neutro. Ancor meno lo è renderne una consustanziale con ogni ipotesi di descrizione. E non solo per gli ovvi risvolti di sociologia della scienza che hanno tali scelte, di norma derubricate come mere faccende pratiche, ma anche per quelli strettamente epistemologici, per via del rapporto che la descrizione istaura con il suo oggetto.

E allora una disciplina che, come la linguistica, abbia per oggetto la lingua nella sua irriducibile varietà e che pensi di porre rimedio a Babele, cioè alla ragione e all’essenza stessa della sua esistenza, presentandosi al mondo con un’espressione monolingue è, se ci si riflette solo un momento, ben più di una sottile contraddizione. È un’assurdità talmente irragionevole che si stenta a crederla possibile. Eppure oggi, nell’apparente varietà di scelte spacciate come teoriche, questa nemmeno troppo celata attitudine a una sostanziale autodistruzione mascherata da fastoso trionfo prospera e, in vista di “magnifiche sorti e progressive” per una sedicente conoscenza, passa per l’unica praticabile.

Sotto una prospettiva ideologica, casca appropriata, in proposito, l’osservazione che fonda una celebre e provocatoria conclusione di Roland Barthes: una lingua è fascista più per ciò che impone che per ciò che impedisce di dire e, si può aggiungere, più che per come impone che per come impedisce di dirlo. Sotto tali imposizioni, il conformismo trova modo di crescere pericolosamente, perché non contrastato e non arginato da una libertà espressiva certamente molto più faticosa. Essa implica infatti che non solo di ciò che si dice e di come lo si dice, ma anche di ciò che altri dicono e di come lo dicono si provi ad avere un barlume di consapevolezza. E non si attinge nemmeno la soglia di tale consapevolezza, se non s’intende come a strenua difesa della varietà agisce ineluttabilmente il tempo, anche al di là della ricca e varia Babele cui pretende di attentare il sogno di un’espressione unica e, con essa, di un pensiero unico.

Chi riflette un po’ sul mondo e sulla vita, oltre che sopra se stesso, dovrebbe tenere sempre ben presente il tempo: esserne costantemente consapevole. Ciò non si verifica o si verifica appena in una temperie culturale e ideologica come la presente, forse perché, malgrado le apparenze, persone che riflettono sul mondo, sulla vita, su se stesse non ce ne sono molte. Si è infatti immersi in un presente fluido e indeterminato. E lo sguardo è rivolto esclusivamente al futuro, come se tale futuro fosse già parte di ciò che si possiede. Lo sguardo è peraltro rivolto al futuro in modo strambo, visto che esso è privo della consapevolezza del tempo. Una consapevolezza siffatta nasce da una conoscenza se non profonda, certo fortemente partecipata, fortemente vissuta del passato. Del passato, al momento, si è però ritenuto di avere decretato la fine. Oggi, l’opportunità di un’esperienza del passato, che, si badi bene, è un’esperienza di studio e di applicazione intellettuale, non solo non viene offerta, ma viene anzi specificamente negata persino da istituti, come quelli preposti alla formazione e all’istruzione delle giovani generazioni, che, se si prendessero per vere le correlate dichiarazioni di intenti, sarebbero destinati a forgiare esseri umani consapevoli, quindi coscienti di essere sì nel loro tempo, ma proprio in quanto tale tempo è nel tempo.

Tempo ed espressione sono d’altra parte inscindibilmente legati. Il tempo cambia l’espressione, ogni espressione umana: non c’è lingua che non muti nel tempo. La circostanza è evidente e ha esiti macroscopici, ma ciò non significa che quanto essa insegna sia facile da cogliere o da concettualizzare. Si comincia a diventarne consapevoli infatti solo nel momento in cui la prospettiva, metabolizzando l’esperienza della variazione dell’espressione nel tempo, si dota di strumenti metodologici e di ipotesi teoriche: diventa insomma una filologia che pensa e, nel momento stesso, una filosofia sperimentale.

Quando si menziona il tempo come incoercibile vettore di variazione dell’espressione, quando si sottolinea l’importanza del saperlo tale, per non vivere letteralmente da “bruti” (dandosi il caso, da bruti iper-tecnologicamente attrezzati, come è ormai il caso), ci si pone sulla scia di Dante Alighieri (tra gli studiosi dell’espressione, certamente non il minore che abbia avuto la nazione italiana). Ecco quanto Dante scriveva in proposito sette secoli fa nel “De vulgari eloquentia”: “Cum igitur omnis nostra loquela (preter illam homini primo concreatam a Deo) sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil fuit aliud quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet. Nec dubitandum reor modo in eo quod diximus «temporum», sed potius opinamur tenendum: nam si alia nostra opera perscrutemur, multo magis discrepare videmur a vetustissimis concivibus nostris quam a coetaneis perlonginquis. Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur. Nec aliter mirum videatur quod dicimus, quam percipere iuvenem exoletum quem exolescere non videmus: nam que paulatim moventur, minime perpenduntur a nobis, et quanto longiora tempora variatio rei ad perpendi requirit, tanto rem illam stabiliorem putamus. Non etenim ammiramur, si extimationes hominum qui parum distant a brutis putant eandem civitatem sub invariabili semper civicasse sermone, cum sermonis variatio civitatis eiusdem non sine longissima temporum successione paulatim contingat, et hominum vita sit etiam, ipsa sua natura, brevissima” (I ix 6-9). 

Ebbene, tra coloro che stanno ancora scorrendo queste pagine e hanno evidentemente accettato con curiosità, se non con simpatia, la provocazione (perché anche di ciò si tratta) di una lunga citazione in latino medioevale, c’è certamente qualcuno cui le parole dantesche si sono presentate chiare. Con altrettanta certezza, c’è qualcuno cui esse non sono risultate tali né ha da averne onta: con la sua testimonianza, procura infatti tra l’altro lampante evidenza al fatto che, integrando un valore comunicativo, l’espressione varia lungo l’asse del tempo e, variando in tale rapporto, diventa oscura.

A portarvi un po’ di chiarezza, provvede subito nel caso qui specifico una traduzione, meglio, un’ipotesi d’interpretazione dovuta ad Aristide Marigo: “Poiché dunque ogni nostro linguaggio (eccetto quello concreato da Dio col primo uomo) è stato rifatto a nostro piacere dopo quella confusione che non fu niente altro che oblio della lingua precedente, e l’uomo è animale instabilissimo e variabilissimo, non può essere né durevole né perpetuo, ma occorre che si differenzi per distanza di luoghi e di tempi come le altre cose che sono nostre, per esempio costumi e atteggiamenti. Né penso che si debba dubitare in quanto abbiamo detto «di tempi», ma crediamo piuttosto che debba essere mantenuto; infatti se esaminiamo altre nostre opere, appare che discordiamo dai nostri più antichi concittadini molto più che da contemporanei molto distanti. E perciò arditamente affermiamo che se ora rivivessero i più antichi Pavesi, parlerebbero un linguaggio dissimile o differente da quello dei Pavesi moderni. Né sembri stupefacente ciò che diciamo altrimenti che il constatare cresciuto un giovane che non vediamo crescere; infatti le cose che si muovono a poco a poco sono appena avvertite da noi; e quanto più lungo tempo richiede la mutazione di una cosa per essere avvertita, tanto più stabile noi crediamo quella cosa. Non ci meravigliamo pertanto se le opinioni di uomini che differiscono poco dai bruti ritengono che una stessa città sia vissuta in civil consorzio sempre con una parlata invariabile, poiché il mutamento della parlata in una stessa città avviene a poco a poco non senza un lunghissimo processo di tempo, e inoltre la vita degli uomini è, per la sua stessa natura, brevissima”.

A proposito di questo passo, come per intero dell’incompiuta opera dantesca, c’è da dire di un paradosso. Dante scrisse infatti il “De vulgari eloquentia” non nella lingua che aveva appreso dalla sua balia, ma, come egli diceva, in “gramatica”. Fece così, ritenendo di dare scacco a Babele non solo contingentemente. Pensava infatti tale espressione non solo immutabile, cosa che a dire il vero essa si rivela, nei limiti umani, ma anche per sempre accessibile se non alla totalità, certo a una parte preponderante delle persone di cultura: a persone siffatte ma non solo sue contemporanee egli la indirizzava. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, verrebbe così da dire, riferendosi al “De vulgari eloquentia”, con un endecasillabo di un maestro d’ironia, Ludovico Ariosto. Ciò che Dante credeva permanente non sarebbe stato tale. E già più di un secolo fa, Joseph Conrad mise in bocca a un rude personaggio del suo “L’agente segreto” questa sortita: “E chi sa il latino? Solo poche centinaia di imbecilli, incapaci di provvedere a se stessi” (l’italiano è di Bruno Maffi). Osservazione che, caso mai potesse essere considerata esagerata allora, non lo è certo se la riferisce all’oggi.

Dante si sbagliava, insomma. Ingoiata dal tempo, se non da Babele, la sua “gramatica” suona oscura, senza che ciò voglia appunto dire che chi la trova oscura manchi di buona cultura. Anzi. Tuttavia e al tempo stesso, Dante vedeva giusto: nel dominio dell’umano, tutto cambia con il tempo. Cambiano le culture e le relative espressioni. Mutino o non mutino tali espressioni, dal momento che a mutare, per effetto di natura, sono in ogni caso gli esseri umani, col tempo. Non c’è espressione che non finisca così per diventare l’espressione di altri esseri umani o, per dire forse meglio, di esseri umani “altri”: un’espressione sovente oscura. Diventano tali persino quelle che ci si propose o ci si propone di tenere come universali, come se, per un’espressione umana qualsiasi, uno spazio fuori di Babele esistesse, o immutabili, come se qualsiasi espressione umana non fosse nel tempo.

Insomma, non è necessario fare un viaggio a Babele per avere consapevolezza che, dove c’è lingua, c’è varietà. Basta essere consapevoli del tempo, guardando indietro, con attenzione, e non solo al futuro. Basta sedersi, essere pazienti, sorridere e aspettare: naturalmente, senza essere turbati dall’idea che l’attesa sia inutile. Dante lo ricorda: il passaggio concesso agli esseri umani è brevissimo.

Se ne può tuttavia stare certi: ciò che si dice, ciò che si scrive, anche con la pretesa che lo sia in modo da aggirare Babele, prima o poi, non sarà altro che testimonianza di una delle molteplici varietà babeliche. Diventerà un’espressione aliena e chiusa, bisognosa di traduzione, d’interpretazione. E di tutte le tecniche, di tutti i pensieri che traduzioni e interpretazioni impongono. Sono le arti, fatte appunto di pensieri e di tecniche, che questa temperie svilisce e pare ritenga inutile tramandare, diffondere e sviluppare secondo i loro principi. Come se la partita con la varietà e l’oscurità delle espressioni umane fosse regolata una volta per tutte. Come se, in fin dei conti, si fossero una volta per tutte saldati i conti con il tempo. Come se a questo presente “smart”, con la sua presunta globalità e chiarezza, non toccasse di diventare presto o tardi un passato diverso e arcano.

“Non parlerai la mia lingua” è stato il filo conduttore della quattordicesima edizione del festival Babel che ha avuto luogo a Bellinzona nel mese di settembre del 2019. Questo scritto riprende i temi del contributo introduttivo recato dall’autore alla manifestazione, per sollecitazione di chi l’ha organizzata e, in particolare, di Sara Groisman, che qui si ringrazia.

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The myth of Babel tells of the loss of the earth’s one language and one speech, and the confusion of languages. Suddenly every object and every idea assumed a plurality of names, and the oversized tower, symbol of human imagination and hubris, was abandoned within the shadow foreboding its destruction. With an unprecedented series of correlated texts, Specimen explores these magnificent ruins, hearing echoes of the multiplicity of languages and the birth of translation. This collection includes texts about Babel, translation or language, and special translations. In September 2021, 20 years after 9/11, the Babel festival will focus on the multiplication of languages and the present diaspora from the regions of ancient Babylon – the scattering of the children of men over the face of all the earth. >> www.babelfestival.com

Published September 2, 2021
The essay first appeared in «Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia», vol. 38/2020, fascicolo 159, pp. 123-127
© 2020 «Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia»

Vielfalt und Verdunkelung der menschlichen Ausdrucksweisen: Jenseits von Babel, die Zeit

Written in Italian by Nunzio La Fauci

| A specimen of Babel: Stories on the loss of the earth’s one speech and the confusion of languages


Translated into German by Marina Galli

Wenn von sprachlicher Vielfalt die Rede ist, denkt man unweigerlich an den Turm von Babel und alles, was dazu in Tausenden von Jahren schon gesagt und geschrieben wurde. Dass Babel oder Babylon der Name eines Ortes ist, ist bekannt. In metonymischer Übertragung bezeichnet dieses Toponym mittlerweile aber auch ein Ereignis: die Sprachverwirrung, der verhängnisvolle Übergang der Menschheit von einer einheitlichen Sprache zu einer Vielzahl an Ausdrucksmöglichkeiten. Doch hat sich derlei überhaupt je ereignet? Das kann natürlich von niemandem bestätigt werden. Babel ist nämlich nicht nur geschichts-, sondern auch zeitlos. Wie dem auch sei, der Verfasser dieser Zeilen zählt sich selbst jedenfalls zu denjenigen, die in Babel nicht einen Ort und Moment der Bestrafung, des Verlusts und der Verdammnis sehen, sondern es auch als Chance für die Menschheit betrachten, als Erweiterung der Möglichkeiten, als Befreiung von Zwängen und Öffnung zur Freiheit hin. Zu einem hohen Preis, soviel steht fest. Doch gibt es überhaupt Wertvolles, das wenig kostet? Welchen Preis Babel auch immer gehabt haben mag, für die Menschheit hat es sich gelohnt.

Versucht man, dies zu begründen, könnte man mit einem belanglos erscheinenden, aber äußerst bedeutsamen Sprichwort beginnen: Variatio delectat, «Vielfalt bereitet Vergnügen», wie es vor langer Zeit in einer Zivilisation ausgedrückt wurde, die ihre Sprache im Übrigen für universell hielt. Ein subtiler Widerspruch, aber Widersprüche schaden Zivilisationen bekanntlich nicht. Ohne Babel gäbe es keine sprachliche Vielfalt, und ebenso wenig das damit verbundene Vergnügen.

Es gäbe also eine einzige, einheitliche und einende Sprache, was das Übersetzen überflüssig machen würde. Und so wäre uns auch ein weites Feld des Möglichen abhandengekommen. Und was würde aus dem spezifisch Menschlichen, wenn dieser Bereich des Möglichen fehlen würde, der Wagemutige dazu einlädt, sich in Abenteuer zu stürzen?

Wer übersetzt, zieht gegen Babel ins Feld. Lässt sich auf einen Kampf ein und akzeptiert Babel damit eigentlich schon. Oder ergibt sich vernünftigerweise dem Unausweichlichen, denn im Angesicht von Babel scheint die menschliche Sprachenvielfalt unausweichlich. Und wieder macht es nichts, dass damit ein subtiler Widerspruch einhergeht: Gegenseitiges Verständnis dort anstreben, wo es per Definition keines geben kann. Die Schlacht derjenigen, die übersetzen, kann gar nicht gewonnen werden, und gerade deshalb lohnt es sich aus moralischer Sicht, sie zu führen. Siegesgewiss ins Feld zu ziehen, ist nämlich schmählicher Frevel. Auch wenn das Gegenteil der Fall scheint: Übersetzen ist eine Hommage an die babylonische Vielfalt; ein gleichzeitiges Kapitulieren und dagegen Ankämpfen, ein Akt barmherziger Wiedergutmachung und lobenswerter Resignation.

Übersetzen ist aber auch etwas anderes: Verrat. Wenn von Vielfalt die Rede ist – jeglicher Art von Vielfalt –, spricht man immer auch von Verrat. Kaum etwas ist langweiliger als Treue, wie jeder weiß, der reflektiert übersetzt. Nicht Treue, sondern Konstanz sollte angestrebt werden, und Abstriche bei Ersterer tun Zweiterer keineswegs Abbruch – im Gegenteil. Traduttore, traditore – «Übersetzer, Verräter» lautet ein in andere Sprachen unübersetzbares italienisches Sprichwort, das Roman Jakobson, im weitesten Sinne selbst ein Übersetzer, nämlich komplexer kultureller Erfahrungen, und dadurch ein Meister der expressiven Vielfalt, in der Schlusspassage seines berühmten Essays zur Übersetzung zitiert. Verräter, also.

Ohne Babel hätten die Menschen in einer einsprachigen Welt also nur eine einzige Art, sich auszudrücken. Es darf ruhig laut gesagt werden, wenn wir uns nun ernsteren Themen als Vergnügen und Freude zuwenden: Eine einsprachige Welt ist der Traum aller Totalitarismen – auch der verschleierten –, und der Albtraum jener, denen die Freiheit des Menschen eine unverzichtbare Voraussetzung für das Leben ist.

Und heute mehr denn je träumt der schleichende Totalitarismus, der diesen historischen Moment auszeichnet, von einer einsprachigen Welt: Auch dem sich authentische Wissenschaftlichkeit anmaßenden Totalitarismus der Kombinationen kann man aus ebendiesem Grund nur schwer Glauben schenken, wenn man sieht, wie er sich in Bereichen des Menschlichen, wie der Sprache, breitmacht.

Nicht sofort zu verstehen, Mühe – viel Mühe – zu haben, zu verstehen, wird, solange man davon ausgeht, dass man dazu imstande ist, zu einem Anlass, nachzudenken, abzuwägen, um nicht voreilig zu vereinfachenden Schlüssen zu gelangen. Die einfachen und schnellen Schlüsse gehören zu den gefährlichsten Missverständnissen, die dennoch häufig und folgenreich vorkommen, was durchaus zum plumpen Geist der bequemen Anhänger der sogenannten fast science passt. Dem ist – nicht aus töricht-elitärer Esoterik, sondern aus der mit Weisheit einhergehenden Zurückhaltung – die Haltung entgegenzusetzen, mit welcher Aischylos vor mehr als zwei Jahrtausenden jene Stimme versah, die seinen Agamemnon eröffnete: «Doch wenn das Haus zu sprechen wüsste – / Vieles, sehr Genaues käme da hervor, / Das ich mit jenen gern bespräche, / Denen das Geheimnis nicht verborgen ist. / Doch wer es nicht kennt – für den bin ich stumm»Aischylos: Die Orestie. Agamemnon / Die Choephoren / Die Eumeniden. Eine freie Übertragung von Walter Jens, Kindler Verlag, München 1979, S. 12. (Deutsch von Walter Jens).

Sich mit dem nur schwer Verständlichen auseinandersetzen, die Möglichkeit, dass man sich vielleicht (vorübergehend? dauerhaft?) nicht versteht, akzeptieren, und das wohl gemerkt nicht mit resignierter Nachgiebigkeit, sondern nach einem Kampf, den man, wie man begreift, möglicherweise verloren hat, sind hingegen Gelegenheiten, ein Bewusstsein dafür zu entwickeln, dass es mehr als eine Sichtweise auf die Dinge gibt. Nicht nur das: Es sind auch Gelegenheiten zu begreifen, dass Dinge und Sichtweisen sich gegenseitig bedingen und zwei Seiten eines stetigen Wechselverhältnisses sind. Gemäß einer geistreichen Beobachtung, die wir einmal mehr Jakobson verdanken, unterscheiden sich Sprachen hauptsächlich in dem, was sie ausdrücken müssen, und nicht so sehr in dem, was sie ausdrücken können. Dasselbe gilt für Metasprachen, also für diejenigen Sprachen, mit denen man sich an die Beschreibung der Sprachen heranwagt. Die eine anstelle einer anderen zu verwenden, stellt nie einen neutralen Akt dar. Einen Anspruch auf Allgemeingültigkeit zu erheben, noch weniger. Und dies nicht nur aufgrund der offensichtlichen wissenschaftssoziologischen Implikationen, die solche Entscheide mit sich bringen, auch wenn sie gewöhnlich als bloße praktische Angelegenheiten abgetan werden, sondern auch aus rein epistemologischen Gründen, wegen der Beziehung, in die sich die Beschreibung in Bezug auf ihr Objekt stellt.

Hält man kurz inne und denkt nach, stellt eine Disziplin wie die Linguistik, die sich mit der Sprache und ihrer charakteristischen Vielfalt beschäftigt und folglich Babel – also der Essenz ihrer eigenen Existenz – entgegenwirken will, indem sie sich der Welt mittels einer einsprachigen Ausdrucksweise präsentiert, in dieser Hinsicht weit mehr als einen subtilen Widerspruch dar. Es ist vielmehr eine dermaßen unvernünftige Absurdität, dass es einem schwerfällt, sie für wahr zu halten. Und doch ist diese sogar offen vertretene Haltung, die einem angesichts der uns als nur theoretisch verkauften Auswahlmöglichkeiten als großartiger Triumph erscheint, die im Grunde genommen aber zur Selbstzerstörung führt, heutzutage weit verbreitet und gilt im Hinblick auf das «fortschreitende und herrliche Geschick»«Die Hänge hier berichten / von jenem uns gewährten / ‹fortschreitenden und herrlichen Geschick›», aus: Der Ginster oder die Blume der Wüste, in: Leopardi, Giacomo: Dialoge und andere Lehrstücke, Zibaldone. Aus dem Italienischen von Hanno Helbling und Alice Vollenweider, Artemis & Winkler, Düsseldorf 1998, S. 247. dieser angeblichen Doktrin als der einzig gangbare Weg.

Dazu passt unter ideologischem Gesichtspunkt jene Beobachtung, auf der eine berühmte und provokante Schlussfolgerung von Roland Barthes basiert: Faschistisch ist eine Sprache eher für das, was sie zu sagen vorschreibt, als für das, was sie zu sagen untersagt, und man könnte hinzufügen: eher für wie sie etwas vorschreibt als für wie sie etwas untersagt. Unter solchen Bedingungen wächst der Konformismus gefährlich an, da ihm nichts entgegengesetzt wird, und er auch nicht von einer sicherlich viel mühseligeren Ausdrucksfreiheit eingedämmt wird. Jene setzt nämlich voraus, dass man nicht nur für das, was man sagt und wie man etwas sagt zumindest ein gewisses Bewusstsein hat, sondern auch dafür, was und wie andere etwas sagen. Wer nicht begreift, dass die Zeit als unermüdlicher und tapferer Verteidiger dieser Vielfalt wirkt und diese, auch jenseits des reichen und vielfältigen Babels, das vom Traum einer einzigen Ausdrucksweise und damit einer einzigen Art zu denken in Gefahr gebracht wird, beeinflusst, erreicht nicht einmal die Schwelle zu diesem unerlässlichen Bewusstsein.

 

Wenn man sich nicht nur über sich selbst, sondern auch ein wenig über die Welt und das Leben Gedanken macht, muss man die Zeit immer mitdenken, sich ihrer unaufhörlich bewusst sein. In einem geistigen und ideologischen Klima wie dem heutigen hat dies aber Seltenheitswert, vermutlich weil Menschen, die über die Welt und das Leben nachdenken, allem Anschein zum Trotz rar sind. Die Gegenwart um uns herum ist fluid und unbestimmt, der Blick ausschließlich auf die Zukunft gerichtet, als ob sie bereits Teil unseres Besitzes wäre.

Dieser Blick auf die Zukunft ist im Übrigen auf einem Auge blind, da es ihm an Zeitbewusstsein fehlt. Ein solches Bewusstsein rührt von einer wenn nicht gründlichen, so doch stark geteilten, gelebten Kenntnis der Vergangenheit. Stattdessen wurde ihr Ende ausgerufen. Heutzutage findet die Auseinandersetzung mit der Vergangenheit – eine zeitintensive Arbeit, die wohlgemerkt einer intellektuellen Anstrengung bedarf – nicht nur gar nicht statt, sondern wird von Institutionen, die für die Erziehung und Ausbildung der nachfolgenden Generationen zuständig sind, sogar ausdrücklich verweigert, obwohl sie es ihren Absichtserklärungen zufolge ja eigentlich als ihre Aufgabe ansehen, reflektierte Menschen heranzubilden, also solche, die sich nicht nur ihrer eigenen Zeit, sondern auch des in-der-Zeit-Seins ihrer Zeit bewusst sind.

Zeit und Sprache sind im Übrigen untrennbar miteinander verbunden. Die Zeit verändert die Sprache, jegliche menschliche Ausdrucksweise: Es gibt keine Sprache, die sich mit der Zeit nicht verändert. Dieser Umstand ist offensichtlich und zeigt sich auf einer makroskopischen Ebene, was jedoch nicht heißt, dass das, was sie uns lehrt, einfach zu begreifen oder zu konzeptualisieren wäre. Man wird sich dessen erst in jenem Moment bewusst, in dem der Blick – die Erfahrung der Sprachveränderung in der Zeit verarbeitend – um methodologische Instrumente und eine theoretische Perspektive ergänzt und so zu einer denkenden Philologie und gleichzeitig experimentellen Philosophie wird.

Kommt man auf die Zeit als unüberwindbarer Vektor des Sprachwandels zu sprechen und hebt dessen Bedeutung hervor, um nicht wortwörtlich als bruti, also kulturlos, zu leben (kulturlos und hochtechnologisch, wie es der Zufall so will) führt kein Weg an Dante vorbei, der sicher zu den wichtigsten italienischen Sprachforschern zählt. Nachfolgend ein Auszug aus Dantes vor sieben Jahrhunderten geschriebenen De vulgari eloquentia, wo er dazu schrieb: «Cum igitur omnis nostra loquela (preter illam homini primo concreatam a Deo) sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil fuit aliud quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet. Nec dubitandum reor modo in eo quod diximus «temporum», sed potius opinamur tenendum: nam si alia nostra opera perscrutemur, multo magis discrepare videmur a vetustissimis concivibus nostris quam a coetaneis perlonginquis. Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur. Nec aliter mirum videatur quod dicimus, quam percipere iuvenem exoletum quem exolescere non videmus: nam que paulatim moventur, minime perpenduntur a nobis, et quanto longiora tempora variatio rei ad perpendi requirit, tanto rem illam stabiliorem putamus. Non etenim ammiramur, si extimationes hominum qui parum distant a brutis putant eandem civitatem sub invariabili semper civicasse sermone, cum sermonis variatio civitatis eiusdem non sine longissima temporum successione paulatim contingat, et hominum vita sit etiam, ipsa sua natura, brevissima» (I ix 6–9). 

Nun findet sich unter denjenigen, die diesen Seiten immer noch folgen und sich offenbar mit Neugierde oder gar Wohlwollen die Provokation eines langen mittellateinischen Zitats haben gefallen lassen (denn auch darum geht es), bestimmt die eine oder andere Person, der Dantes Worte klar erschienen sind. Mit ebenso großer Sicherheit ist es anderen aber anders ergangen, und dafür braucht sich niemand zu schämen: Es ist vielmehr ein Beweis dafür, dass die Sprache und ihr kommunikativer Wert entlang der Zeitachse und im Verhältnis zueinander variieren und die Bedeutung unscharf werden kann.

Im vorliegenden Fall bringt eine Übersetzung, beziehungsweise ein Interpretationsvorschlag von Francis Cheneval etwas Licht ins Dunkel: «Da aber alle unsere Sprachen – außer jener, die Gott zusammen mit dem ersten Menschen erschaffen hat – nach jener Verwirrung, die nichts anderes war als das Vergessen der früheren [Sprache], nach unserem Gutdünken neu gebildet wurden und da der Mensch ein äußerst unstetes und veränderliches Lebewesen ist, können sie weder dauerhaft noch beständig sein, sondern müssen sich wie anderes, was zu uns gehört, zum Beispiel Sitten und Gebräuche, aufgrund des Abstandes von Ort und Zeit verändern. Und ich meine, es sollte darüber, dass wir ‹der Zeit› gesagt haben, kein Zweifel aufkommen, sondern ich glaube vielmehr, dass daran festzuhalten ist: Denn wenn wir unsere anderen Handlungen prüfen, so scheinen wir von unseren frühesten Mitbürgern weit mehr abzuweichen als von weit entfernten Zeitgenossen. Deshalb bezeugen wir kühn, dass die frühesten Bewohner von Pavia, wenn sie nun auferstehen würden, mit den heutigen in verschiedener oder gegensätzlicher Sprache reden würden. Was wir sagen, ist nicht erstaunlicher, als wenn wir einen Jüngling wahrnehmen, der erwachsen geworden ist und den wir nicht haben aufwachsen sehen. Denn was sich nur nach und nach bewegt, wird von uns am wenigsten wahrgenommen, und je mehr Zeit es erfordert, die Veränderung einer Sache wahrzunehmen, für desto unveränderlicher halten wir jene Sache. Wir wundern uns also nicht, wenn die Menschen, die sich nur wenig von den Tieren unterscheiden, der Meinung sind, das Gemeinschaftsleben in einer bestimmten Stadt habe sich immer in einer unveränderlichen Sprache vollzogen, da die Veränderung der Sprache einer Stadt auch über einen äußerst langen Zeitraum nur gering und das Leben der Menschen seiner Natur gemäß sehr kurz ist»Alighieri, Dante: Über die Beredsamkeit in der Volkssprache. Übersetzt von Francis Cheneval, mit einer Einleitng von Ruedi Imbach und Irène Rosier-Catach und einem Kommentar von Ruedi Imbach und Tiziana Suarez-Nani. Lateinisch-Deutsch, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2007, S. 29-31. (I ix 6–9).

In Bezug auf diesen Auszug, wie auch allgemein auf dieses unvollendete Werk Dantes, muss auf ein Paradox hingewiesen werden. Tatsächlich schrieb Dante De vulgari eloquentia nicht in der Sprache, die er von seiner Amme gelernt hatte, sondern in gramatica, wie er zu sagen pflegte. Er tat dies im Glauben, Babel auch langfristig Schachmatt zu setzen. Er hielt diese Ausdrucksweise nämlich nicht nur für unveränderlich – was sie, in den Grenzen des Menschlichen, gewissermaßen auch ist –, sondern, wenn auch nicht für einer Mehrheit, so doch einem Großteil der gebildeten Menschen zugänglich; und an diese wandte er sich auch, und zwar beileibe nicht nur an seine Zeitgenossinnen. «So falsch ist oftmals unsers Urteils Gang!»Ariost: Der Rasende Roland. In der Übertragung von Johann Diederich Gries, Band I: Gesänge 1–25, Winkler Verlag, München 1980, Gesang 7., hätte man in Bezug auf De vulgari eloquentia fast Lust zu erwidern, in einem Elfsilbler eines Meisters der Ironie, Ludovico Ariosto. Was Dante für dauerhaft hielt, erwies sich als vergänglich. Und schon vor mehr als einem Jahrhundert legte Joseph Conrad einer der grobschlächtigen Figuren seines Romans Der Geheimagent folgende Aussage in den Mund: «Wer versteht Latein? Nur ein paar Hundert Trottel, die sich selbst nicht zu helfen wissen»Conrad, Joseph: Der Geheimagent. Übersetzt von Ernst W. Freißler, Literatur- und Wissenschaftsverlag, Göttingen 2019, S. 17.. Eine Bemerkung, die, wenn sie damals noch als übertrieben gelten mochte, es heutzutage gewiss nicht mehr ist. 

Dante irrte sich also. Mehr von der Zeit als von Babel verschluckt, klingt seine gramatica heute unscharf, ohne dass dies heißen würde, dass es denjenigen, denen sie unscharf erscheint, an Kultur fehlt. Im Gegenteil. Allerdings lag Dante gleichzeitig auch richtig: Alles Menschliche verändert sich mit der Zeit. Die Kultur und dazugehörigen Ausdrucksweisen verändern sich. Und auch davon abgesehen, ob sie sich nun verändern oder nicht, verändern sich mit der Zeit auf jeden Fall die Menschen, so ist es von der Natur vorgesehen. Keiner Sprache bleibt es erspart, nicht letztlich zur Sprache anderer Menschen zu werden, oder, vielleicht besser ausgedrückt, von Menschen, die anders sind, wodurch sie automatisch unscharf wird. Dies geschieht sogar mit jenen Sprachen, die man für universell und unveränderlich hielt oder hält, als ob es für irgendeine menschliche Ausdrucksweise einen Raum außerhalb von Babel und außerhalb der Zeit gäbe.

Es ist also nicht nötig, eine Reise nach Babylon zu unternehmen, um ein Bewusstsein dafür zu entwickeln, dass Sprache mit Vielfalt einhergeht. Es genügt, sich der Zeit bewusst zu sein, und aufmerksam nicht nur in die Zukunft, sondern auch in die Vergangenheit zu blicken. Oder sich hinzusetzen, geduldig zu lächeln und abzuwarten, natürlich, ohne sich von der Vorstellung stören zu lassen, das Warten könnte vergeblich sein. Dante erinnert uns daran: Das den Menschen zugestandene Verweilen auf der Erde ist von kürzester Dauer.

Eines steht jedoch fest: Was man auch sagt, was man auch schreibt, und egal, ob dabei Babel umgangen werden soll oder nicht, früher oder später wird alles zu einem weiteren Beweis für die babylonische Vielfalt. Fremd und unzugänglich wird es klingen, und einer Übersetzung, einer Interpretation bedürfen. Und aller Techniken und Gedankengänge, die damit einhergehen. Die aus diesen Gedankengängen und Techniken bestehenden Künste scheinen in Zeiten wie den heutigen keinen Wert mehr zu haben, und ihre Weitergabe, Verbreitung und Weiterentwicklung wird als überflüssig betrachtet. Als ob das Spiel mit ihrer Vielfalt und Unschärfe ein für alle Mal geregelt wäre. Als hätte man die Rechnung mit der Zeit ein für alle Mal beglichen. Als ob nicht auch diese vermeintlich globale und klare, smarte Gegenwart früher oder später zu einer fremden, geheimnisvollen Vergangenheit werden würde.

«Non parlerai la mia lingua. You Will Not Speak My Language» – dieses Thema zog sich als roter Faden durch das Babel-Festivals 2019, das vorletzten September in Bellinzona stattgefunden hat. Dieser Artikel greift die Themen des damaligen einleitenden Beitrags wieder auf, den der Autor auf Wunsch der Organisator*innen und insbesondere von Sara Groisman – der wir an dieser Stelle danken –, vortrug.

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The myth of Babel tells of the loss of the earth’s one language and one speech, and the confusion of languages. Suddenly every object and every idea assumed a plurality of names, and the oversized tower, symbol of human imagination and hubris, was abandoned within the shadow foreboding its destruction. With an unprecedented series of correlated texts, Specimen explores these magnificent ruins, hearing echoes of the multiplicity of languages and the birth of translation. This collection includes texts about Babel, translation or language, and special translations. In September 2021, 20 years after 9/11, the Babel festival will focus on the multiplication of languages and the present diaspora from the regions of ancient Babylon – the scattering of the children of men over the face of all the earth. >> www.babelfestival.com

Published September 2, 2021
© Specimen


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