Tradurre Jaccottet

Written in Italian by Fabio Pusterla

| A specimen of Babel: Stories on the loss of the earth’s one speech and the confusion of languages

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Una testimonianza, per quanto breve e imbarazzata, sul proprio lavoro di traduzione non può non considerare le condizioni di partenza che hanno propiziato, e forse orientato, quell’esperienza: tanto più se quella di tradurre non è stata una scelta professionale e in qualche modo obbligata, ma la tappa provvisoriamente conclusiva di un lento processo di ammirazione e di avvicinamento.

Per quel che mi riguarda, la conoscenza della poesia di Philippe Jaccottet passa prima di tutto per una via di Bellinzona, dove parecchi anni fa Giorgio Orelli, incontrato per caso, cominciò a raccontarmi (sopravvalutando le mie letture) le sue osservazioni sul primo movimento di Au petit jour (in particolare sui versi iniziali: «La nuit n’est pas ce que l’on croit, revers du feu…») e su un allora recente articolo critico a quel testo dedicato. Spinto dalla curiosità e dall’ignoranza, mi procurai il volume Poésie 1946-1967 di Gallimard, prefato da Jean Starobinski, cui si aggiunsero più tardi i numerosi altri titoli che è inutile ora rammentare. «A l’approche de ces poèmes s’éveille une confiance» dice Starobinski proprio all’inizio del suo saggio introduttivo: fotografando perfettamente le prime impressioni del lettore, che si sente subito a proprio agio tra i versi di questo poeta, accolto con una grazia priva di sfarzo, con una solennità appena accennata e libera da cerimonie.

Uscivo allora da un periodo in cui mi ero intensamente dedicato allo studio di un altro poeta francese, Yves Bonnefoy; e proprio rispetto a Bonnefoy, e alla sua poesia ardua e di difficile accesso, mi pareva di cogliere la generosa modestia con cui Jaccottet invita i lettori a condividere quel tanto di verità che alle parole è concesso trattenere («entre mes mots je peux garder, / avec assez de patience, / sinon l’endormie elle-même / ou la terre dans ses chemins, / du moins un peu de la lumière / qu’elles firent monter pour moi, / puisque la lumière aux paroles / est plus fidèle qu’aux forêts», si legge in Le souci). Jaccottet poeta «facile», dunque? No, certo; ma poeta che sceglie il tono umile, che non si affida né al canto spiegato né alla totale negazione del canto, che non esibisce nessun virtuosismo tecnico, nessun progetto dichiaratamente sperimentale, e pare al contrario sgusciare tra le maglie della modernità per recuperare un’esatta semplicità del dire.

Una simile immagine di Jaccottet poggiava soprattutto, come probabilmente accade durante qualsiasi lettura, su alcuni testi precocemente fissatisi nella memoria; le Notes pour le petit jour («qui avance / dans la poussière n’a que son souffle pour tout bien, / pour toute force qu’un langage peu certain.»), Le travail du poète, i salmi funebri de Le livre des morts, per non citarne che alcuni. O ancora, ma già oltre l’antologia gallimardiana, la dolorosa suite Parler, contenuta nel volumetto Chants d’en bas: che appunto provai a tradurre nel 1989 per inserirla nel «dossier» dedicato a Jaccottet dalla rivista «Idra»Cfr. Philippe Jaccottet, “Poesie e prose”, con saggi di Jean Starobinski e Loredana Bolzan, «Idra», A, luglio 1990, pp.181-250..

Non so suonare il piano, e non saprò mai cosa provi un pianista passando dall’ascolto ammirato di un brano musicale allo studio di quel brano in vista della sua esecuzione; ma immagino sia qualcosa di analogo a ciò che capita al lettore deciso a trasformarsi in traduttore. Dietro la melodia che prima si ascoltava estasiati iniziano ora a disegnarsi le mille asperità del dettato musicale, le molecole ritmiche e sonore quasi invisibili a prima vista, ma che costituiscono il tessuto più profondo della musica. Ciò che appariva «scorrevole» e «naturale» si scinde in una girandola di frammenti in equilibrio, e la presunta facilità del brano, consegnata alla propria memoria di semplice lettore, risulta il frutto quasi miracoloso di una disperante complessità. Il problema posto dagli otto testi di Parler mi sembrava soprattutto di ordine ritmico e tonale: come restituire, in un’altra lingua, quello strano miscuglio di semplicità linguistica («Parler est facile, et tracer des mots sur la page, / en règle générale est risquer peu de chose») e di sommessa solennità della pronuncia («Celà, / c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur, / qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche / en déchirant les brumes dont on s’enveloppe, / abattant un à un les obstacles, traversant / la distance de plus en plus faible – si près soudain / qu’on ne voit plus que son mufle plus large / que le ciel.») con cui le poesie stringono insieme il loro spinoso fascio di contraddizioni? Come evitare, traducendo, di accentuare uno dei due volti di questo linguaggio, ora la mesta affabilità del verso ora il suo tono tragico, a scapito non solo dell’altro, ma della ricchezza complessiva del testo?

La stessa difficoltà si presentò più tardi, ingigantita, nel corso della assai più impegnativa traduzione de L’effraie e de L’ignorantSfociata nel volume Philippe Jaccottet, “Il Barbagianni. L’Ignorante…”: ancora una volta la rilettura dei testi in vista della traduzione confermava, complicandola, l’immagine originaria di quella poesia, che si rivelava sempre più edificata sopra una serie di regole formali rigorosissime eppure mai troppo ingombranti, e dissimulate sotto un’apparente scorrevolezza. Nelle primissime pagine de L’effraie, tanto per cominciare, subito dopo l’alta e celebre poesia d’apertura (La nuit est une grande cité endormie), vero e proprio labirinto sonoro in cui ogni particella sembra riecheggiare la lugubre voce de «l’oiseau nommé l’effraie», campeggiano ben cinque sonetti, perfettamente conchiusi nel loro guscio fatto di misura sillabica e schema rimico; mentre all’altro capo dell’escursione stilistica di Jaccottet si potrebbero attribuire i «racconti in versi» Le passage des troupeaux e soprattutto Le laveur de vaisselle (ambedue ne L’ignorant), scanditi da quartine a rima alternata. In nessuno dei due casi la ripresa delle misure tradizionali intende suggerire alcunché di ironico o di parodistico; al contrario, l’intenzione dell’autore è serissima, persino drammatica, e il suo lavoro consiste nell’attenuare, o, per usare un termine caro a Jaccottet, nel «cancellare» la rigidità della gabbia metrica, sovrapponendovi un mormorio profondo, quasi argomentativo, che attira il lettore nel suo movimento come in un’onda di pensiero. Tra «sonetto» e «racconto in versi», gli altri testi della raccolta dispiegano un vastissimo ventaglio di risorse metrico-ritmiche, attingendo alle numerose possibilità combinative offerte dall’incrocio di rima e misura sillabica (ma un discorso analogo varrebbe per tutte le altre componenti del testo). La tradizione non è mai assente o rifiutata, e tuttavia la sua presenza è sempre messa tra parentesi, in secondo piano, nascosta sotto una scansione della frase che sembra riprodurre piuttosto il ritmo del pensiero, e che trasforma la regola metrica in esitazioni e accelerazioni della voce.

Può il traduttore sperare di rendere conto di una simile poesia? Forse sì; ma si tratterà allora non tanto di mantenere a tutti i costi quella rima, quell‘assonanza, quella misura sillabica, bensì di ritrovare all’interno della propria lingua il senso e l’equivalente della ricerca compiuta dal poeta nella sua, traducendo non il singolo frammento di linguaggio poetico, ma lo spazio di pronuncia elaborato dall’autore. Jaccottet, che non ama molto discorrere in termini tecnici di poesia, e tanto meno della propria, offre spesso un’indicazione illuminante parlando d’altro, magari descrivendo un paesaggio. Si rilegga ad esempio una pagina del 1966, immaginando che, invece di un «luogo geografico», il poeta ragioni di un «luogo testuale»:

Tout ce qui nous relie, dans les paysages d’ici, au très ancien et à l’élémentaire, voilà ce qui en fait la grandeur, par rapport à d’autres où ces images (simples illusions quelquefois, mais significatives) ne sont pas, ou sont moins présentes. Surtout la pierre usée, tachée de lichens, proche du pelage ou du végétal, les écorces; les murs devenus pour la plupart inutiles, dans les bois; les puits; les maisons envahies de lierre et abandonnées. Dans ce moment de l’histoire où l’homme est plus loin qu’il n’a jamais été de l’élémentaire, ces paysages où le monument humain se distingue mal du roc et de la terre nous donnent un ébranlement profond, entretiennent le rêve d’une sorte de retour en arrière auquel beaucoup sont sensibles, effrayés par l’étrange avenir qui se dessine (…) Qu’est-ce-que celà signifie, et quel en serait le profit pour nous, ou la leçon? Nous rencontrons, nous traversons souvent des lieux, alors qu’ailleurs il n’y en a plus. Qu’est-ce-que un lieu? Une sorte de centre mis en rapport avec un ensemble. Non plus un endroit détaché, perdu, vain. En ce point on dressait jadis des autels, des pierres.Cfr. Philippe Jaccottet, “La semaison. Carnets 1954-1967″, Gallimard, 1971, pp. 101-103.

Nel paesaggio «naturale» affiorano resti di un passato sepolto, eppure intuibile; non delle rovine romanticheggianti, ma delle tracce appena visibili tra il fogliame, un suggerimento bisbigliato. Trasferire la descrizione dall’alfabeto del paesaggio e dell’architettura a quello del linguaggio poetico consente allora forse di intravedere la meta verso cui si dirige la traduzione: che tenterà di ritrovare, sotto la vegetazione linguistica di superficie, analoghi affioramenti di un passato letterario (attinente, a fortiori, alla lingua e alla cultura in cui si traduce), frammenti di tradizione da decifrare.

Anche da questo punto di vista generale, insomma, sembra valere per il traduttore il principio della compensazione, quel singolare «conto di perdite e di profitti» che spesso è stato richiamato per quanto riguarda il livello fonosimbolico di un testo; in base al quale principio 

si tratta di compensare la perdita (effettivamente, la distruzione) di figure fonosemantiche cardinali con la creazione di figure (diciamo col Goethe) equivalenti.Cfr. Giorgio Orelli, “Tradurre poesia”, «Colloquium Helveticum», 3, 1986, p.48. Sull’argomento, si vedano almeno anche le osservazioni di Franco Fortini (“Dei ‘compensi’ nelle versioni di poesia”) in, “La traduzione del testo poetico, a c. di Franco Buffoni, Milano, Guerini e associati, 1989, pp. 115-119.

Nel caso particolare di Jaccottet, tuttavia, questo meccanismo deve tenere conto della situazione precedentemente descritta, cioè dell’affabilità linguistica e argomentativa del testo francese, che ne costituisce la nota dominante. La riproduzione ( o compensazione) dei caratteri metrici e retorici non dovrebbe in altre parole usare violenza al tono generale del testo, ma inserirsi al suo interno con apparente modestia. In queste condizioni, è quasi inevitabile essere con una certa frequenza posti di fronte alla necessità di rinunciare, impoverendo certo la poesia, ma forse non snaturandola, ad alcuni aspetti pur importanti, per svilupparne altri giudicati prioritari.

Gli esempi, a questo proposito, non mancherebbero, e potrebbero spaziare dalla retorica profonda del linguaggio poetico alle sue manifestazioni più superficiali. Il primo sonetto de L’effraie, per cominciare con un caso senza speranza, propone una metamorfosi fonosemantica che conduce nel giro di tre versi da tournoie a tours…noient:

Tu est ici, l’oiseau du vent tournoie,
toi ma douceur, ma blessure, mon bien.
De vieilles tours de lumière se noient
et la tendresse entrouve ses chemins.

Tutto ciò scompare letteralmente nella versione italiana (o rimane appena arieggiato dai reticoli voltEGGIA L’UCCELLO…DOLCEzza…LA LuCE…ANTIchi…Torrioni…SENTIeri), che ha già il suo da fare a ripercorrere, dentro il sistema chiuso e tirannico del sonetto, l’ombrosa dolcezza del discorso:

Sei qui, volteggia l’uccello del vento,
tu mia dolcezza e ferita, mio bene.
Sfuma la luce di antichi torrioni,
la tenerezza schiude i suoi sentieri.

E cosa dire di un distico (da Ninfa, nella stessa raccolta) che suona (fuor di metafora) così:

il ne me reste que ces roses s’effeuillant
dans l’herbe où toute voix se tait avec le temps.

Qui la traduzione, oltre alla perdita della rima, sostituita da due quasi-rime «orizzontali», deve ammettere la necessità di comprimere un enunciato (all’interno del quale ogni petalo di rosa caduto ticchetta come un metronomo) che rischia di strabordare in maniera eccessiva oltre i limiti dell’endecasillabo italiano. Complice una forse non troppo inopportuna memoria dantesca (Inf, V, 96: «mentre che ‘l vento, come fa, ci tace»), ecco la resa:

[…] mi resta
solo il roseto che si sfoglia al prato,
dove ogni voce, con il tempo, tace.

Il quinto frammento de Le livre des morts presenta invece una difficoltà d’altra natura; esso è infatti costruito intessendo l’andamento dubitosamente argomentativo con le sedici variazioni su un’unica rima in –a:

Mais si ce dont je parle avec ces mots de peu de poids
était vraiment derrière les fenêtres, tel ce froid
qui avance en tonnère sur le val? Non, car celà
encore est une innoffensive image, mais si la
mort était vraiment là comme il le faudra une fois,
où serons les images, les subtils pensers, la foi
préservée à travers la longue vie? Comme je vois
fuir la lumière dans le tremblement de toute voix,
sombrer la force dans la frousse du corps aux abois
et la gloire soudain trop large pour le crâne étroit!

Quelle oeuvre, quelle adoration et quel combat
l’emporterait sur cette agression par en bas?
Quel regard assez prompt pour passer au-delà,
quelle âme assez légère, dis, s’envolera
si l’oeil s’éteint, si tous les compagnons s’éloignent,
si le spectre de la poussière nous empoigne?

Questa volta, verificata l’impossibilità (ma si legga pure «l’incapacità») di rispettare integralmente la struttura rimica, si è preferito accentuare la drammaticità argomentativa (affidata alle figure sintattiche e iterative, in collaborazione con gli enjambements), caricando quel tanto di energia sonora sopravvissuta al trasloco dal francese all’italiano sulle spalle, speriamo non troppo esili, delle toniche di fine verso, e puntellando il testo con qualche rima (o assonanza) al mezzo:

Ma se ciò di cui parlo con queste parole leggere
fosse davvero dietro le finestre, come il gelo
che irrompe sulla valle? No, la figura è debole,
non serve, ma se la morte fosse per davvero
là, come un giorno sarà necessario, dove allora
saranno argute idee, figure, fede,
serbata lungo il corso della vita? Come vedo
la luce in fuga nel tremore di ogni voce,
la forza in calo nel terrore dei corpi allo stremo,
la gloria d’improvviso troppo larga, e il cranio stretto!

Che opera o adorazione, e quale lotta
potrà trionfare sopra questo assalto? Quale sguardo
così spedito da passare oltre? E dimmi quale
anima tanto leggera da involarsi, se anche l’occhio
si spegne, se ora tutti i compagni si allontanano,
se ci afferra lo spettro della polvere?

Ma ciò che intendeva essere una semplice testimonianza sta minacciando di tramutarsi in un’autogiustificazione; e, anche se l’insoddisfazione e la coscienza dei propri limiti costituisce forse un aspetto non secondario dell’opera del traduttore, è ora di concludere. Lo si fa proponendo senza alcun commento uno dei rari esempi che sembrano (al traduttore, appunto), pur tra mille dubbi, meno zoppicanti, e in cui ci si augura possa sopravvivere un ricordo della luminosità originale:

La clarté de ces bois en mars est irréelle,
tout est encore si frais qu’à peine insiste-t-elle.
Les oiseaux ne sont pas nombreux; tout juste si,
très loin, où l’aubépine éclaire les taillis,
le coucou chante. On voit scintiller des fumées
qui emportent ce qu’on brûla d’une journée,
la feuille morte sert les vivantes couronnes
et, suivant la leçon des plus mauvais chemins,
sous les ronces, on rejoint le nid de l’anémone,
claire et commune comme l’étoile du matin.

Sembra irreale in marzo la chiarezza
di questi boschi, insiste appena, tanto tutto è fresco.
Gli uccelli sono scarsi e dentro il ceduo
distante, che rischiara il biancospino,
giusto canta il cucù. Fumate scintillanti
portano in alto quel che si è bruciato
di un giorno. La foglia morta serve le viventi
ghirlande, e per i sentieri più impervi, se li segui,
tra i rovi, giungi al nido dell’anemone,
chiara e comune come la stella del mattino.

– – –

The myth of Babel tells of the loss of the earth’s one language and one speech, and the confusion of languages. Suddenly every object and every idea assumed a plurality of names, and the oversized tower, symbol of human imagination and hubris, was abandoned within the shadow foreboding its destruction. With an unprecedented series of correlated texts, Specimen explores these magnificent ruins, hearing echoes of the multiplicity of languages and the birth of translation. This collection includes texts about Babel, translation or language, and special translations. In September 2021, 20 years after 9/11, the Babel festival will focus on the multiplication of languages and the present diaspora from the regions of ancient Babylon – the scattering of the children of men over the face of all the earth. >> www.babelfestival.com

Published July 19, 2021
Previously published in La traduzione del testo poetico, edited by Franco Buffoni,  Milano, Guerini e associati, 1989.
© Fabio Pusterla 1989

Traduire Jaccottet

Written in Italian by Fabio Pusterla

| A specimen of Babel: Stories on the loss of the earth’s one speech and the confusion of languages


Translated into French by  Christian Viredaz

Un témoignage, aussi bref et embarrassé soit-il, sur mon travail de traduction ne peut pas passer sous silence les conditions qui ont favorisé au départ, et peut-être orienté, cette expérience : d’autant moins si la décision de traduire n’a pas été le résultat d’un choix professionnel et pour ainsi dire obligé, mais une étape et la conclusion toute provisoire d’un lent processus d’approche et d’admiration.

En ce qui me concerne, la connaissance de la poésie de Philippe Jaccottet passe d’abord par une rue de Bellinzone où, il y a bien des années, Giorgio Orelli, rencontré par hasard, se mit à me faire part (surestimant mes lectures) de ses observations sur le premier mouvement de ” Au petit jour ” (son attaque en particulier : ” La nuit n’est pas ce que l’on croit, revers du feu… “) et sur un article alors récent consacré à ce texte. Poussé par la curiosité et par mon ignorance, je me procurai le volume Poésie 1946-1967 de la collection ” Poésie/Gallimard ” préfacé par Jean Starobinski – auquel allaient s’ajouter tant d’autres titres qu’il est inutile de rappeler ici. “A l’approche de ces poèmes s’éveille une confiance “, note d’entrée de jeu Starobinski, restituant à la perfection les premières impressions du lecteur, qui se sent tout de suite à son aise parmi les vers du poète, accueilli avec une grâce dénuée de faste, avec une solennité esquissée à peine et sans cérémonies.

Je sortais alors d’une période où j’avais voué toute mon attention à l’étude d’un autre poète français, Yves Bonnefoy ; et justement, par rapport à Bonnefoy et à sa poésie ardue, difficile d’accès, il me semblait saisir la généreuse modestie avec laquelle Jaccottet invite ses lecteurs à partager cette parcelle de vérité qu’il est permis aux mots de retenir – (“entre mes mots je peux garder, / avec assez de patience, / sinon l’endormie elle-même  ou la lettre dans ses chemins, / du moins un peu de la lumière / qu’elles firent monter pour moi, / puisque la lumière aux paroles / est plus fidèle qu’aux forêts” – lit-on dans ” Le Souci “.) Alors, Jaccottet ” poète facile ” ? Non, bien sûr. Mais un poète qui privilégie le ton humble, qui ne s’en remet ni au lyrisme déployé ni à la totale négation du chant, n’exhibe aucune virtuosité technique, aucun projet ouvertement expérimental, mais semble au contraire se faufiler entre les mailles de la modernité pour retrouver une exacte simplicité de l’expression.

Une telle image de Jaccottet reposait surtout, comme c’est probablement le cas pour n’importe quelle lecture, sur quelques textes très tôt ancrés dans ma mémoire : les ” Notes pour le petit jour ” (” qui avance / dans la poussière n’a que son souffle pour tout bien, / pour toute force qu’un langage peu certain “), ” Le Travail du poète”, les psaumes funèbres du ” Livre des morts “, pour n’en citer que quelques-uns. Ou encore, mais postérieure déjà à l’anthologie Gallimard, la douloureuse suite ” Parler “, contenue dans le recueil Chants d’en bas, que je m’essayai justement à traduire en 1989, pour l’insérer dans le ” dossier ” consacré à Jaccottet par la revue Idra.Voir Philippe Jaccottet ” Poesie e prose “, con saggi di Jean Starobinski e Loredana Bolzan, in Idra 1, juillet 1990, pp. 181-250.

Je ne sais pas jouer du piano et je ne saurai jamais ce qu’éprouve un pianiste lorsqu’il passe de l’écoute admirative d’un morceau de musique à l’étude de ce morceau en vue de son exécution ; mais j’imagine que ce doit être quelque chose d’assez semblable à ce qui arrive au lecteur décidé à se faire traducteur : derrière la mélodie qu’avant on écoutait extasié commencent à se dessiner maintenant les mille aspérités du discours musical, les molécules de rythme et de son, presque invisible au premier abord, qui constituent pourtant le tissu le plus profond de la musique. Ce qui paraissait ” coulant ” et ” naturel ” se scinde en une multitude de fragments qui s’équilibrent, et la ” facilité ” présumée du morceau, déposée dans notre mémoire de simple lecteur, se révèle le fruit presque miraculeux d’une désespérante complexité.

Le problème posé par les huit textes de ” Parler ” me semblait surtout d’ordre tonal et rythmique : comment rendre, dans une autre langue, ce mélange étrange de simplicité linguistique :

(« Parler est facile, et tracer des mots sur la page, / en règle générale, est risquer peu de choses ») et de solennité retenue dans l’expression: (« Cela, / c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur, / qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche / en déchirant les brumes dont on s’enveloppe, / abattant un à un les obstacles, traversant / la distance de plus en plus faible – si près soudain / qu’on ne voit plus que son mufle plus large / que le ciel ») avec lequel les poésies nouent leur épineux faisceau de contradictions ? Comment éviter, en traduisant, d’éclairer l’un des deux aspects de ce langage, tantôt son affabilité un peu mélancolique, tantôt son ton tragique, au détriment non seulement de l’autre, mais de la richesse de l’ensemble ?

La même difficulté s’est présentée plus tard, considérablement agrandie, au cours de la traduction bien plus absorbante de L’Effraie et de L ‘IgnorantAboutissant à la publication du volume de Philippe Jaccottet, Il Barbagianni. L’ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, a cura di Fabio Pusterla, Torino, Einaudi, 1992 (” Collezione di poesia “, 229). : là encore, la relecture des textes en vue de leur traduction confirmait, en la compliquant, l’image originelle de cette poésie, qui se révélait toujours davantage édifiée sur une série de règles formelles extrêmement rigoureuses, jamais trop encombrantes pourtant, et dissimulées sous une apparente fluidité. Ainsi, tout au début de L’Effraie, juste après la célèbre poésie d’ouverture (” La nuit est une grande cité endormie “), véritable labyrinthe sonore dont chaque particule semble faire écho au lugubre appel de “l’oiseau nommé l’effraie “, se dressent pas moins de cinq sonnets, parfaitement enclos dans leur écrin métrique et prosodique ; tandis qu’à l’autre bout du voyage stylistique de Jaccottet on pourrait rattacher ces ” récits en vers ” que sont ” Le Passage des troupeaux ” et surtout “Le Laveur de vaisselle” (tous deux dans L’Ignorant), scandés en quatrains à rimes croisées. Ni dans un cas ni dans l’autre, la reprise de mètres traditionnels n’entend suggérer quelque chose d’ironique ou de parodique ; au contraire, l’intention de l’auteur est des plus sérieuses, et même dramatiques, tout son travail consistant à atténuer ou – pour reprendre un terme cher à Jaccottet – à “effacer ” la rigidité du cadre métrique en y superposant un murmure profond, presque discursif, qui attire le lecteur dans son mouvement comme sur une onde de pensée. Entre sonnet et ” récits en vers “, les autres textes des deux recueils déploient un large éventail de ressources métriques et rythmiques, recourant aux innombrables possibilités de combinaison offertes par le croisement de la rime et du pied (mais un discours analogue vaudrait pour toutes les autres composantes du texte). La tradition n’est jamais absente ni refusée, mais sa présence est toujours mise entre parenthèses, au second plan, dissimulée sous une scansion de la phrase qui semble plutôt reproduire le rythme de la pensée, et qui transforme la règle métrique en hésitations ou accélérations de la voix.

Le traducteur peut-il espérer rendre compte d’une telle poésie ? Peut-être que oui : mais alors il ne s’agira pas tant de maintenir à tout prix cette rime-là, cette assonance-là, ce nombre précis de syllabes, que de retrouver au sein de sa propre langue le sens et l’équivalent de la recherche accomplie dans la sienne par le poète, en traduisant non pas un fragment isolé de langage poétique, mais l’espace de parole élaboré par l’auteur. Jaccottet, qui n’aime pas beaucoup traiter de poésie en termes techniques, et de la sienne encore moins, offre souvent une indication éclairante lorsqu’il parle d’autre chose, par exemple lorsqu’il décrit un paysage. Relisons ainsi cette page de 1966 en imaginant que le lieu dont parle le poète n’est pas ” géographique ” mais ” textuel ” :

Tout ce qui nous relie, dans les paysages d’ici, au très ancien et à l’élémentaire, voilà ce qui en fait la grandeur, par rapport à d’autres où ces images (simples illusions quelquefois, mais significatives) ne sont pas, ou sont moins présentes. Surtout la pierre usée, tachée de lichens, proche du pelage ou du végétal, les écorces ; les murs devenus pour la plupart inutiles, dans les bois ; les puits ; les maisons envahies de lierre et abandonnées. Dans ce moment de l’histoire où l’homme est plus loin qu’il n’a jamais été de l’élémentaire, ces paysages où le monument humain se distingue mal du roc et de la terre nous donnent un ébranlement profond, entretiennent le rêve d’une sorte de retour en arrière auquel beaucoup sont sensibles, effrayés par l’étrange avenir qui se dessine [ …] Qu’est-ce que cela signifie, et quel en serait le profit pour nous, ou la leçon ? Nous rencontrons, nous traversons souvent des lieux, alors qu’ailleurs il n’y en a plus. Qu’est-ce qu’un lieu ? Une sorte de centre mis en rapport avec un ensemble. Non plus un endroit détaché, perdu, vain. En ce point on dressait jadis des autels, des pierres. [ …]Ph. Jaccottet, ” La Semaison Carnets 1954-1967 “, Gallimard, 1971, pp. 103-104.

Dans le paysage ” naturel ” affleurent les restes d’un passé enfoui, qu’on devine pourtant ; non pas des ruines romantiques, mais des traces à peine visibles à travers le feuillage, une allusion murmurée. En transposant cette description de l’alphabet du paysage et de l’architecture à celui du langage poétique, on pourra peut-être entrevoir le but que poursuit la végétation : qui s’efforcera de même de retrouver, sous la surface de la végétation linguistique, l’affleurement d’un passé littéraire (touchant, a fortiori, la langue et la culture dans lesquelles on traduit), des fragments de tradition à déchiffrer.

Bref, il semble que, de ce point de vue générique aussi, s’impose au traducteur le principe de ” compensation “, ce singulier ” compte de pertes et profits ” auquel on a coutume de se référer s’agissant du niveau phono-symbolique du texte ; principe selon lequel ”

il s’agit de compenser la perte (la destruction en réalité) de figures phono-sémantiques essentielles par la création de figures (pour parler comme Goethe) équivalentes “.Giorgio Orelli, ” Tradurre poesia “, in Colloquium Helveticum 3, 1986, p. 48. Sur le même sujet, voir aussi les observations de Franco Fortini, ” Dei ” compensi ” nelle versioni di poesia “, in La Traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Milano, Guerini e associati, 1989, pp. 115-119.

Dans le cas particulier de Jaccottet, ce mécanisme doit cependant prendre en compte la situation précédemment décrite, autrement dit l’ “affabilité ” discursive du texte français, qui en constitue la note dominante. La reproduction (ou la compensation) des caractères métriques et rhétoriques ne devrait pas, en d’autres termes, faire violence au ton général du texte, mais s’y intégrer avec une apparente modestie. Dans ces conditions, il est presque inévitable qu’on se retrouve assez fréquemment devant la nécessité de renoncer (au risque d’appauvrir la poésie, mais peut-être pas de la dénaturer) à certains aspects pourtant importants, pour en développer d’autres jugés prioritaires.

Les exemples ne manqueraient pas à ce propos, et pourraient aller de la rhétorique profonde du langage poétique à ses manifestations de surface. Le premier sonnet de L’Effraie, pour commencer par un cas désespéré, propose une métamorphose phono-sémantique conduisant en l’espace de trois vers de ” tournoie ” à ” tours… noient ” :

Tu es ici, l’oiseau du vent tournoie,
toi ma douceur, ma blessure, mon bien.
De vieilles tours de lumière se noient.
et la tendresse entrouvre ses chemins.

Métamorphose littéralement disparue de la version italienne (ou du moins évoquée à peine par les réseaux VOLtEGGIA L’UCCELLO… DOLCEzza… LA LuCE et VENTO… ANTIchi… TOrrioni… SENTieri), qui a déjà bien de la peine à reproduire, dans les limites qu’impose le système tyrannique du sonnet, l’ombrageuse douceur du discours :

Sei qui, volteggia l’uccello del vento,
tu mia dolcezza e ferita, mio bene.
Sfuma la luce di antichi torrioni,
la tenerezza schiude i suoi sentieri.

Et que dire de ce distique (de ” Ninfa “, tiré du même recueil) :

il ne me reste que ces roses s’effeuillant
dans l’herbe où toute voix se tait avec le temps.

Ici la traduction, sans parler de la perte de la rime (remplacée par deux semi-rimes ” horizontales “), doit encore se mesurer avec la nécessité de comprimer un énoncé (au sein duquel chaque pétale de rose en chutant cliquette comme un métronome) qui risque de déborder à l’excès les limites de l’hendécasyllabe italien. Me souvenant, peut-être pas trop hors de propos, d’un vers de Dante (Inferno, V, 96 : ” mentre che ‘l vento, come fa, ci tace ” ), je l’ai rendu ainsi :

[…] mi resta
solo il roseto che si sfoglia al prato,
dove ogni voce, con il tempo, tace.

La section V du ” Livre des morts ” présente, elle, une difficulté d’un autre ordre, construite comme elle est sur seize variations d’une rime unique en /a/, auxquelles se noue l’allure dubitative de la réflexion :

Mais si ce dont je parle avec ces mots de peu de poids
était vraiment derrière les fenêtres, tel ce froid
qui avance en tonnerre sur le val ? non, car cela
encore est une inoffensive image, mais si la
mort était vraiment là comme il le faudra une fois,
où seront les images, les subtils pensers, la foi
préservée à travers la longue vie ? Comme je vois
fuir la lumière dans le tremblement de toute voix,
sombrer la force dans la frousse du corps aux abois
et la gloire soudain trop large pour le crâne étroit !

Quelle œuvre, quelle adoration et quel combat
l’emporterait sur cette agression par en bas ?
Quel regard assez prompt pour passer au-delà,
quelle âme assez légère, dis, s’envolera
si l’œil s’éteint, si tous les compagnons s’éloignent,
si le spectre de la poussière nous empoigne ?

Dans ce cas, assuré de l’impossibilité (ou de mon incapacité) de respecter intégralement la récurrence de la rime, j’ai préféré mettre l’accent sur ” l’intensité dramatique du discours ” (confiée aux figures syntaxiques et itératives, combinées avec les enjambements), étayer le texte de quelques rimes (ou assonances) intérieures, et charger les toniques de fin de vers (sans trop présumer de leur résistance, j’espère) de cette part d’énergie sonore qui a survécu en passant du français à l’italien :

Ma se ciò di cui parlo con queste parole leggere
fosse davvero dietro le finestre, come il gelo
che irrompe sulla valle ? No, la figura è debole,
non serve, ma se la morte fosse per davvero
là, come un giorno sarâ necessario, dove allora
saranno argute idee, figure, fede
serbata lungo il corso della vita ? Come vedo
la luce in fuga nel tremore di ogni voce,
la forza in calo nel terrore dei corpi allo stremo,
la gloria d’improvviso troppo larga, e il cranio stretto !

Che opera o adorazione, e quale lotta
potrà trionfare sopra questo assalto ? Quale sguardo
cosi spedito da passare oltre ? E dimmi quale
anima tanto leggera da involarsi, se anche l’occhio
si spegne, se ora tutti i compagni si allontanano,
se ci afferra lo spettro della polvere ?

Mais ce qui devait être simple témoignage menace maintenant de se muer en autojustification : certes, l’insatisfaction et la conscience de ses propres limites peuvent constituer un élément non négligeable de l’œuvre du traducteur, mais il est temps de conclure. Qu’on me permette de le faire en proposant, sans l’ombre d’un commentaire, l’un des rares exemples qui, au milieu de mille doutes, me paraissent moins boiteux, et où, je l’espère, puisse perdurer un reflet de la luminosité irradiant l’original :

La clarté de ces bois en mars est irréelle,
tout est encore si frais qu’à peine, insiste-t-elle.
Les oiseaux ne sont pas nombreux ; tout juste si,
très loin, où l’aubépine éclaire les taillis,
le coucou chante. On voit scintiller des fumées
qui emportent ce qu’on brûla d’une journée,
la feuille morte sert les vivantes couronnes,
et suivant la leçon des plus mauvais chemins,
sous les ronces, on rejoint le nid de l’anémone,
claire et commune comme l’étoile du matin.

(” Les Eaux et les Forêts “)

Sembra irreale in marzo la chiarezza
di questi boschi, insiste appena, tanto tutto è fresco.
Gli uccelli sono scarsi e dentro il ceduo
distante, che rischiara il biancospino,
giusto canta il cucù. Fumate scintillanti
portano in alto quel che si è bruciato
di un giorno. La foglia morta serve le viventi
ghirlande, e per i sentieri piú impervi, se li segui,
tra i rovi, giungi al nido dell’ anemone,
chiara e comune come la stella del mattino.

– – –

The myth of Babel tells of the loss of the earth’s one language and one speech, and the confusion of languages. Suddenly every object and every idea assumed a plurality of names, and the oversized tower, symbol of human imagination and hubris, was abandoned within the shadow foreboding its destruction. With an unprecedented series of correlated texts, Specimen explores these magnificent ruins, hearing echoes of the multiplicity of languages and the birth of translation. This collection includes texts about Babel, translation or language, and special translations. In September 2021, 20 years after 9/11, the Babel festival will focus on the multiplication of languages and the present diaspora from the regions of ancient Babylon – the scattering of the children of men over the face of all the earth. >> www.babelfestival.com

Published July 19, 2021
© Fabio Pusterla
© Revue littéraire Ecriture
© “Le Culturactif Suisse” – “Le Service de Presse Suisse”


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